di Carlo Zappula
La donna si mise seduta, indossava jeans e una camicetta bianca, un reggiseno nero si vedeva attraverso il tessuto della camicia. Aveva un viso bello, lo aveva avuto prima del decesso, ma ora era pallida come un cadavere e gli occhi… gli occhi avevano perso il colore naturale, adesso erano opachi.
“Ma come cazzo fa…” disse qualcuno alle spalle di Angelo Comi, aveva parlato nel microfono messo all’interno della maschera.
Angelo Comi fu aiutato a rialzarsi, mentre la ragazza stava ancora seduta a terra e cominciava a guardarsi attorno. Posava lo sguardo su di lui, poi sui colleghi che gli stavano vicino.
Cristiano Cosimo, il più giovane della squadra, si affiancò al capo Team: “Ma non era morta?”.
Lui si voltò verso l’interlocutore, s’intravedevano appena gli occhi dalla maschera, “Quella ragazza è morta!”.
“E allora che cazzo ci fa seduta?”.
Il capo Team Alpha non gli rispose, tolse la sicura dal suo mitra M4A1 e lo puntò sulla ragazza, mirando alla testa.
Qualcuno tentò di fermarlo parlandogli via radio.
Nessuno era certo che fosse morta e adesso tutto sembrava tranne che priva di vita.
Udirono delle urla provenire dall’edificio dell’università, così tutta l’attenzione si spostò verso l’ingresso aperto.
“E adesso?” disse qualcuno. Si misero tutti in allarme, caricando le armi concentrandosi sul nuovo problema.
La ragazza si mise in ginocchio muovendosi adagio, come se tastasse il terreno sotto di lei, fissò un soldato che gli voltava le spalle e si mosse nella sua direzione.
Le mani afferrarono una gamba e strinsero forte finché la bocca arrivò al polpaccio.
L’urlo del soldato giunse in tutti gli auricolari, nessuno lo avrebbe dimenticato per un pezzo, era un misto di sorpresa, dolore e paura.
Angelo Comi reagì subito.
Colpì la donna con il calcio dell’arma, proprio sulla guancia sinistra, scaraventandola ad un paio di metri dal soldato. Aveva la bocca sporca di sangue e una ferita al viso, forse anche qualche frattura. Aveva perso qualche dente che giaceva sui sampietrini della piazza.
Non esitò più e le sparò due colpi al petto.
Altro sangue uscì dalla nuova ferita, ma la donna non rimase a terra immobile, tutt’altro.
Il suo sguardo si posò su Angelo Comi e digrignò i denti sputando altro sangue sulla camicia già macchiata.
“Sparate alla testa!” urlò qualcuno.
Angelo Comi appoggiò il calcio dell’arma alla spalla e prese la mira.
Sparò un solo colpo colpendola in fronte.
La donna si adagiò a terra e rimase immobile. Una chiazza di sangue si allargò sul pavimento della piazza.
Calò un silenzio surreale per alcuni attimi, poi ci fu movimento all’ingresso dell’università. Le luci pubbliche si accesero provocando un ronzio sommesso e la piazza fu inondata da una luce arancione.
Decine di ombre apparvero sulle pareti interne dell’androne, poi udirono dei lamenti misti a ringhi. Videro decine e decine di persone accalcarsi verso l’uscita, ma c’era qualcosa che non andava.
* * *
“Cristo, Capo, che cosa sono quelle cose?”, la voce risuonò negli auricolari del Capo Team Alpha, come una domanda di chi non voleva credere a quello che vedeva. Eppure, nell’orrore agghiacciante, tutti vedevano un’orda di cose che ora poco avevano di umano: giusto le sembianze.
“Tu pensa a sterminarle tutte, quelle cose, cazzo!”.
“Aprite il fuoco, non lasciatele passare!” gridò qualcun altro.
Angelo Comi non riuscì a capire chi avesse parlato, ma poco importava. Una pioggia di bossoli cadde sui sampietrini della piazza e un rumore assordante di spari echeggiò fra le pareti dell’università cattolica. Poi ci furono diverse detonazioni: granate a frammentazione.
I primi ad essere annientati furono i mostri più vicini alla linea di fuoco, che caddero in terra come sacchi di spazzatura.
Gli altri, quelli più lenti, inciamparono sui cadaveri in maniera goffa, senza cercare di ripararsi dall’urto della caduta e vennero raggiunti da altri proiettili.
Cessarono il fuoco e calò un silenzio che quasi stordiva le orecchie di tutti.
Poi, il capo del primo Team, si ritrovò a pensare a quella dannata fiala e ad una frase che diceva sempre suo padre: “E’ sempre stato così: tutto comincia dalle cose più semplici e piccole!”.
Sorrise all’interno del passamontagna e della maschera facciale, quanto gli sembrava azzeccata questa specie di proverbio.
Gli uomini del Team Alpha erano tutti vicino al loro capo e stavano osservando lo spettacolo raccapricciante: decine di corpi inermi che giacevano a terra, braccia e gambe macchiati di sangue, cadaveri che non si sarebbero dovuti rianimare, eppure proprio questo processo da narrativa e film horror giaceva sotto i loro increduli occhi.
“Sembra che sia tutto finito!” osservò David Dinolfi. Imbracciò di nuovo l’arma e controllò il caricatore, infine se la portò sulla spalla come se il lavoro in quel posto fosse terminato.
“Anche se quei mostri fossero finiti, abbiamo un sacco di lavoro da fare!” disse Roberto Calvi, Alpha 4.
Si guardò intorno esaminando il cadavere di una bambina che avrà avuto dieci anni, e d’istinto, si tolse la maschera anti gas ma si lasciò elmetto e passamontagna.
“Soldato!” disse Angelo Comi, “Rimettiti subito la maschera, è un ordine diretto!” ma finì la frase osservandolo avanzare verso il cadavere più piccolo. Sembrava non lo stesse ascoltando, forse perché non aveva più gli auricolari alle orecchie.
Intanto, i Team Bravo, Charlie e Delta si disposero secondo gli ordini del Protocollo Codice Rosso. Alcuni soldati si dotarono di piccoli serbatoi e spingarde, e presto avrebbero bonificato l’intera zona.
La strada che conduceva alla piazza venne chiusa centinaia di metri prima, transennata e costantemente controllata. Nessuno poteva entrare, né uscire fino a nuove disposizioni.
Il capo Team Alpha si affiancò al collega, che stava in ginocchio davanti al piccolo corpo crivellato di colpi. Percepì la sua presenza e disse: “Come diavolo si fa ad uccidere una bambina!”.
Angelo Comi non riuscì a capire se stesse piangendo, ma il tono della sua voce fu flebile, quasi lo avesse detto sottovoce. I suoi anfibi si fermarono nei pressi di un rivolo di sangue, evitò di venirne a contatto: “Era già morta quando le abbiamo sparato.” e gli mise una mano sulla spalla come a dargli coraggio. “Adesso vieni, che dobbiamo terminare il lavoro!”.
L’università venne chiusa e bonificata. I resti della fiala furono prelevati e sigillati all’interno di un contenitore. I responsabili dell’Agenzia avrebbero deciso in seguito se distruggere le prove di quell’Incidente, oppure studiarne la composizione chimica e batteriologica.
Comunque nessuno ne sarebbe dovuto venire a conoscenza.
La città di Roma, dopo alcune ore di panico, tornò a vivere la vita di sempre.
Sarebbero nate alcune leggende metropolitane, questo era certo, anche se la storia degli Zombie avrebbe fatto ridere chiunque.
Qualcuno si sarebbe spacciato per testimone oculare, ma nessuno gli avrebbe creduto: era stata una fuga di gas a provocare quell’inferno e a danneggiare sia la piazza che l’università e la causa del decesso di decine di persone innocenti.
FINE
Carlo Zappula