di Gio Delvò
Il tintinnio metallico prodotto dal fabbro che martella il ferro incandescente sull’incudine, mi batte fastidioso e costante nella testa. Mi sento come se avessi vomitato l’anima dopo una sbornia. Facciamo un passo indietro… avevo quindici anni quando, per la prima volta, feci conoscenza con l’alcol; di nascosto rubai una bottiglia di liquore dalla credenza della cucina dell’orfanotrofio, con due amici, Marco e Riccardo di qualche anno più grandi. Ricordo ce la scolammo in una notte di rigido inverno, pensando che scaldandoci all’interno saremmo stati meglio.
Non fu così.
Alterati dall’alcol decidemmo di sgattaiolare fuori e fare un giro per le strade della città (chissà in quel momento cosa ci passò per la testa).
Quella fu la prima volta che li vidi. Ne avemmo sentito parlare, ma noi ragazzini pensammo che fossero solo storie inventate per farci stare tranquilli: “fate i bravi o viene l’uomo morto a mangiarvi” ci dissero. Ancora non lo sapevo, ma “l’uomo morto” stava crescendo dentro me.
Ad un certo punto, Marco rimase indietro, stava male, si fermò a vomitare. Quel breve istante gli fu fatale; un gruppo di tre zombie gli sbucò all’improvviso alle spalle, neanche se ne accorse ed i tre fecero del nostro amico il loro pasto. Ancora oggi mi chiedo ancora se abbia sofferto.
Riccardo ed io restammo immobili, ipnotizzati ad assistere impotenti a quel macabro e disgustoso spettacolo.
Quando finalmente riuscimmo a muoverci, scappammo terrorizzati e ci rifugiammo in un cantiere di un palazzo in costruzione.
Nonostante fosse inverno, non soffrii particolarmente il freddo, quella sera uscii vestita leggera: una maglietta a maniche lunghe ed un paio di jeans. All’improvviso stetti male, tremavo.
Tremavo e piangevo.
Vuoi il freddo, vuoi quella visione orribile dello smembramento del povero Marco, vuoi i dolori muscolari comparsi all’improvviso, mi contorsi in terra come presa da attacchi epilettici.
Riccardo era un buon amico, credo gli piacessi, per quello si prese sempre cura di me quando fui in difficoltà. Anche quella sera, dopo che mi calmai dalle contorsioni, Riccardo mi strinse a se in un abbraccio protettivo, cercò di consolarmi e riscaldarmi.
“Mai abbassare la guardia, l’amore ti frega” era il mantra che ripetei da quel momento fino ad oggi.
Riccardo abbassò le difese, il suo amore per me l’aveva fregato.
Mi fissò con occhi spalancati in cui riuscii a leggerci tutto il terrore che provava, sembrava invocare pietà. Sul momento non capii, non ero nel pieno delle mie facoltà mentali, poi abbassai lo sguardo e la vidi, la mia mano, conficcata nello stomaco di Riccardo come un coltello caldo nel burro. “Oddio ma che ho fatto?”. Presa dal panico e senza minimamente pensare alle conseguenze, tirai indietro il braccio, ma le conseguenze furono ben più peggiori. Avvolte nella mano vennero fuori le budella ed organi vari. Quasi svenni. In preda al panico scappai, lasciando il povero Riccardo ormai privo di vita, con le interiora che gli fuoriuscirono dal corpo.
Da quella sera mi promisi che sarei sempre stata sola, così da non poter far più male a nessuno; anch’io come loro dunque, ero pericolosa per chi mi stava accanto e nel mio auto esiliarmi, avrei vigilato sulla città ed eliminato senza scrupoli ogni zombie che si fosse fatto vivo.
L’acqua calda che esce dalla doccia, massaggia il mio corpo indolenzito e mi scorre addosso rilassandomi l’animo. Uscita rigenerata, sono pronta per affrontare la mia missione.
Gio Delvò