di Viola Della Rina
Sono sempre stata una persona distratta, una volta mi è capitato di mettere il cellulare in lavastoviglie e tentare di mettere in carica una forchetta, spesso sono uscita e rientrata in casa almeno quattro volte prima di presentarmi ad un appuntamento, dimenticavo la borsa, il portafogli, una volta sono uscita addirittura senza scarpe! Ma mai sono stata distratta come durante quella vacanza.
Eravamo arrivati al campeggio da circa tre giorni, il tempo era bello e fortunatamente, dopo un viaggio con rientri forzati per recuperare le varie cose che mi ero dimenticata sparse per casa e quindi conseguente arrivo con un ritardo spaventoso, ci eravamo accomodati molto bene, il campeggio per come l’ho sempre vissuto era fatto di tende, insetti, caldo soffocante e rumori molesti, quell’anno però Giulio aveva prenotato un bungalow, una di quelle casette in prefabbricato che imitano la routine quotidiana, era composta da una camera, un bagno, una cucina e un porticato che dava sulla via principale.
Quel giorno, credo che fosse un mercoledì, ci eravamo alzati tardi e pigramente ci eravamo trascinati verso la spiaggia, la giornata pareva girare bene passata tra un bagno nell’acqua salmastra e un bagno di sole, eravamo rientrati a casa al tramonto, eravamo in ferie e la routine di tutti i giorni ce la volevamo scordare totalmente.
Quella sera Giulio voleva stupirmi, non so se voleva farsi perdonare il modo indicibile con cui mi aveva trattato la mattina perché l’avevo obbligato a tornare indietro due volte perché avevo dimenticato nell’ordine la crema solare e l’asciugamano, mi obbligò ad entrare dentro la doccia per prima e di fare le cose con calma perché avrebbe pensato lui a preparare una cena deliziosa.
Aprii l’acqua calda e mi spogliai dei pochi indumenti che avevo e mi gettai sotto una personale cascata di acqua bollente.
Persi la cognizione del tempo, finché una voce che mi pareva familiare mi chiamò “ Vieni tesoro, la cena è pronta!” pensai di aver sognato perché mi ricordava la voce di mia madre, ovviamente era impossibile essendo morta circa due anni fa per un tumore al polmone, decisi comunque di seguire il consiglio del sogno, la pelle delle dita mi stava diventando squamosa e probabilmente stavo finendo tutta la riserva di acqua calda nel boiler, Giulio mi avrebbe ucciso, altro che dolce cenetta solo per noi!
Chiusi l’acqua della doccia e mi avvolsi nell’asciugamano.
Il bagno era piccolo, al limite del claustrofobico, ed era impossibile uscire senza guardarsi allo specchio, non sono mai stata una di quelle donne che passa il proprio tempo davanti allo specchio a contarsi le rughe o le imperfezioni ma quella sera volevo essere perfetta, aprii il mio beuty-case per e tirai fuori la matita nera, Giulio adorava quando mi rimarcavo gli occhi chiari con un colore scuro, soprattutto adorava quando il mio trucco colava sotto alle lacrime di piacere che mi faceva versare ogni volta. Mi avvicinai allo specchio per truccarmi in quelle pose strane che assumono le donne quando toccano gli occhi, quando lo notai. L’immagine che mi stava guardando aveva un qualcosa di strano, gli occhi, i miei occhi di un grigio chiaro quasi bianco pian piano stavano diventando scuri, più scuri del nero, le labbra si stavano aprendo e nonostante io non muovessi un muscolo la mia immagine portò le mani alle orecchie e con una smorfia disperata gridò.
Non un suono, non una parola provenne da quelle labbra, lo specchio mi esplose in faccia in milioni di pezzi di vetro, non ebbi neanche il tempo di portare le mani alla faccia, l’esplosione mi scaraventò a terra mentre il sangue iniziava ad uscirmi da mille piccole ferite cosparse su tutto il mio corpo. Istintivamente cercai un pezzo di specchio per guardarmi la faccia, per capire dove e quanto fossi ferita. I frammenti di specchio ancora una volta non rifletterono la mia immagine ma l’immagine frammentata di un qualcosa che non riuscivo a capire. Sono sempre stata una gran patita di puzzle, nonostante perdessi sempre qualche pezzo, quindi raccolsi tutte le schegge che sembravano volermi dire qualcosa e con una minuziosa pazienza ricostruii la figura. Avrei dovuto complimentarmi con me stessa visto che ero riuscita a non perdere neanche un pezzo, e soprattutto senza guardare la foto sulla scatola. Mio padre sarebbe stato fiero di me.
La forma che ne uscì era quella di una bambina, bellissima, la pelle bianca come porcellana, i lunghi capelli biondi erano appuntati in un’elaborata acconciatura che ricordava le bambole ottocentesche, anche i suoi abiti sembravano provenire dalla stessa epoca. I suoi occhi, neri come un pozzo senza fine rimanevano fissi, inespressivi, discordando con la natura che si intravedeva nello sfondo in cui gli alberi sembravano chiamarsi gli uni gli altri tant’era coordinata la danza che stavano eseguendo. Le sue labbra si mossero appena a formare una parola, non sono mai stata brava a leggere sulle labbra, iniziai a gridarle di risposta che non riuscivo a capirla, piangevo disperandomi quando le sue mani si protesero verso le mie.
Mi lasciai stringere da quelle mani fredde, le labbra continuavano a sillabare mentre il freddo mi avvolgeva sempre più, iniziai a tremare, il respiro mi si fece più corto, ormai aspettavo soltanto che il mio cuore si arrendesse all’ipotermia quando improvvisamente tutto scomparve e mi ritrovai di nuovo di fronte allo specchio, intonsa, e con la matita puntata verso la mia pupilla.
Una fantasia, una visione, dovevo essere proprio stanca se non mi ero resa neanche conto di essermi addormentata.
Lasciai perdere il trucco, mi strinsi forte l’asciugamano addosso ed uscii decisa a raccontare a Giulio ciò che mi era accaduto per riderne insieme.
Aprii piano la porta del prefabbricato che dava sulla veranda dove, sicuramente, Giulio aveva già preparato tutto per la nostra cena, mentre uscivo detti un ultimo sguardo distratto allo specchio un unica grande lettera svettava al suo centro. A.
Non era finita, non era un sogno, non era una visione, era realmente accaduto un qualcosa che non riuscivo a spiegare, cercai di fare mente locale sulle labbra della piccola, cercai di trovare una parola convincente che potesse iniziare per a, me ne venne in mente solamente una: AIUTAMI.
Quello spettro allo specchio mi stava sicuramente chiedendo aiuto, ho sempre creduto ai fantasmi e al sovrannaturale ma era la prima volta che sentivo di un fantasma che infestava un prefabbricato!
Mi buttai di corsa verso la cucina chiamando Giulio a gran voce ma qualcosa non andava in quel posto, un silenzio innaturale avvolgeva l’intero campeggio. Silenzio e buio, rimanevano accese solamente i lampioni che illuminavano il mio bungalow e quelle che del sentiero che ci portava alla pineta dove giocavano i bambini. Un segno, sentivo di dover seguire quelle luci. Il mio disagio di essere avvolta solamente da un telo mare fu presto superato, non appena varcai il cancelletto del bungalow mi accorsi di essere riccamente vestita, indossavo uno splendido peplo completamente bianco, tra i capelli avevo un filo d’oro che li teneva su mente ai piedi portavo degli splendidi sandali a schiava.
“Vieni da me, ti aspetto” continuava a ripetermi una voce, i lampioncini sul sentiero erano disposti a distanza di un metro l’uno dall’altro, dopo qualche metro il silenzio mi aveva completamente avvolto, non sentivo né caldo né freddo né stanchezza, solo il silenzio, e la paura. Volevo tornare indietro. Mi voltai sapendo di trovare dietro di me la strada per tornare a casa, mentre ci trovai solo il buio. Non esisteva più né la strada né i lampioni, provai ad allungare una mano verso il buio e venni travolta da un’ondata di dolore, il buio si trasformò in una massa informe che cercava di inglobarmi, fui presa dal panico e cercai di liberarmi tirando e scalciando fin quando senza nessun preavviso fui liberata da quella stretta mortale. Finii a terra strappandomi il peplo e sbucciandomi le ginocchia, non ebbi neanche tempo di mettermi a piangere, da dietro le lacrime riuscivo a distinguere il buio che avanzava minaccioso verso di me. “Corri da me, ti prego” l’anonima voce continuava a chiamarmi, mi asciugai le lacrime con la stoffa ormai strappata e mi diedi a corsa verso la luce. La luce, la vita, salvare quella bambina per salvare me stessa, queste sono le parole che continuavo a ripetermi, salvala, salvati.
Correndo e arrancando raggiunsi il parco giochi della pineta, ormai l’unica luce che potevo vedere era quella che illuminava i giochi per bambini. L’altalena dondolava cigolando rumorosamente come se ci fosse qualcuno seduto sopra, ma, ovviamente, non c’era nessuno, stessa cosa per il ponte tibetano che congiungeva le due torrette che piacciono tanto ai bambini ma più agli adolescenti che si scambiano i primi baci nascosti. Mi avvicinai allo scivolo e lo sentii caldo, come se ci fosse passato qualcuno sopra da poco, si sentivano echi di risate, parole scomposte “prendimi!” “spingimi” “più in alto” una voce sovrastava le altre “voltati” era la voce misteriosa che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio. Mi voltai di scatto, davanti a me si stagliava la figura che avevo ricostruito nello specchio si rivolse a me con un piglio da adulta e una voce da vecchia “sei arrivata finalmente”.
Senza paura mi inginocchiai verso di lei, adesso i capelli le ricadevano sciolti sul volto e gli abiti ricordavano i miei, di fattura antica, greca, o forse romana, gentilmente le scostai i capelli dagli occhi e mi accorsi che i suoi occhi erano vuoti. Non inespressivi come quando si era riflessa nel mio specchio, le sue orbite erano completamente vuote. “Come posso aiutarti? Dimmelo ti prego” mi rivolsi a lei come farebbe una madre lei duramente si scostò da me e iniziò a ridere “tu non puoi aiutarmi perché sei solo tu quella che ha bisogno di aiuto” così dicendo mi diede una spinta che mi fece perdere l’equilibrio.
Caddi per un tempo che sembrò interminabile, mi sembrava di essere Alice entrata nella tana del bianconiglio, chiusi gli occhi finché non mi sembrò che tutto fosse tornato normale.
Sentivo un uomo piangere, cercai di concentrarmi meglio, era il mio Giulio che piangeva, perché?
Aprii cautamente prima un occhio poi l’altro, ero di nuovo nel bagno, mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, non potevo muovermi né cambiare angolo di visuale, cercai di allungare le mani e mi ritrovai a sbattere contro una barriera invisibile, cercai di urlare ma non riuscivo ad emettere nessun suono finché non sentii la voce di un altro uomo.
“Probabilmente un aneurisma cerebrale signore, non ha sofferto, non se ne è neanche accorta, mi dispiace”
Vidi il mio corpo venire coperto da un lenzuolo, Giulio che singhiozzando cercava di comporre scompostamente numeri sul telefono.
Quella A vergata sullo specchio non significava affatto aiuto, ma Atropo, colei che non si può evitare, l’inflessibile, colei che taglia il filo della vita, la morte, che alle volte per migliorare il suo lavoro si diverte con noi.
Molte volte nella mia vita sono stata distratta ma mai avrei pensato di esserlo al punto tale di non accorgermi di essere morta e forse questa è la mia giusta punizione, rimanere nel limbo, diventare un vuoto riflesso nello specchio.
Viola Della Rina