di Joe Vanni
Mi svegliai stonato, ebbro, con il mal di testa.
So che non andava bene prendere un antinfiammatorio o un antidolorifico dopo una sbronza, ma lo avevo già fatto altre volte ed ero sopravvissuto. Quindi inghiottii una tachipirina e cominciai a sudare freddo e mi maledissi: “il solito coglione, lo sapevi“.
Il mal di testa cominciò a passare. Mi ripresi completamente con una tisana di alloro del meraviglioso arbusto in giardino. Quante volte mi consolò da mal di pancia, di testa e vomito.
Dal garage portai nel giardino soprastante il gruppo elettrogeno a benzina, lo caricai, lo accesi e connessi il computer, internet, televisione.
Questa volta tutto taceva.
Forse erano diventati apparati inutili, ammesso che non lo fossero già prima, a cominciare dalla televisione.
Indossai una mimetica vecchia e logora, un giubbotto di pile senza maniche e mi recai in paese per dare un occhiata. Magari qualche sopravvissuto era uscito fuori dal nascondiglio.
Non vidi zombie durante il cammino, non vidi animali, non vidi nessuno.
Arrivando nella piazza del paese, però, forse attirato dal rumore del motore, scorsi un vecchio che usciva da una porta. Era malato, o stava per morire. Sbraitò qualche parola forsennata…non ricordo bene.
“Russia, America, Ucraina, missili, virus, televisione, è finita. Tutti morti, pure i non morti”.
Anche lui che cadde ai miei piedi stecchito.
Feci un giro in paese, percorrendo anche varie strade provinciali.
Nel circondario trovai solo ammassi di cadaveri sia di infetti che di animali E poi un fetore di carne putrefatta.
Posteggiai la jeep al sole, guardandolo…fumando.
Riflessione. La sera in cui tutto cominciò avevo spento la televisione, come sempre, come adesso. Stavo guardano un film in dvd usando le cuffie, come ero solito fare, con il volume alto. Non mi accorsi, quindi, di guerre, telegiornali, sirene, fine del mondo.
Probabilmente Russi e Americani avevano cominciato a scannarsi prima con armi convenzionali, poi qualcuno aveva premuto qualche bottone e nugoli di missili nucleari, armi batteriologiche e biologiche e chissà che altro avevano completato l’opera.
A casa avevo evitato, per qualche fortuna immensa, le varie deflagrazioni, le radiazioni termiche, nucleari, ma non il fallout e nemmeno gli agenti biologici che il vento, invece di diluire e disperdere, aveva contribuito a spargere e disseminare ovunque.
Dovetti prenderne atto: stavo morendo anche io.
La contaminazione era penetrata in casa da prese d’aria, spifferi, tubo della stufa, persino dallo scarico del cesso. E per di più ero uscito all’aria aperta quella mattina stessa.
Ero disidratato, avevo la tosse e le vertigini.
Non so quanti giorni o ore sarei sopravvissuto.
A questo punto, solo e malato, forse sarebbe stato meglio tirarsi una fucilata. Ma lo spirito di sopravvivenza, la volontà di vivere, mi trattennero dal tirare il grilletto.
Tornai a casa.
I cani erano morti, senza di me a vegliarli, e probabilmente piansi…non ricordo bene.
Erano destinati a essere seppelliti in quel giardino che amavano tanto, in cui passammo tante ore, tanti anni.
Quel sole che illuminava il cielo e questa parte di montagna stava per sparire, non scaldava più né me né altri. Era una luce ormai inutile.
Non era preparato agli zombie, alle epidemie, alla scomparsa dell’umanità, alla catastrofe totale. Dicevo spesso “sono nato pronto“, ma in realtà ormai mi rendevo conto che la verità era un’altra.
Ero malato, in decomposizione da vivo, e senza una speranza che mi spingesse a lottare, senza una persona accanto che mi tenesse in vita – mia moglie fu probabilmente più fortunata, magari era morta senza accorgersi di nulla in quella nazione intorno a cui scoppiò il conflitto -, senza un dio che non era mai esistito.
E soli si muore.
Fino ad allora avevo convissuto con l’idea che io fossi diverso, superiore, invincibile, una macchina da guerra, invulnerabile, forte e strafottente, e fino ai 44 anni credevo di poter sopravvivere a tutti, di essere inattaccabile da malattie, che su di me risplendesse sempre il sole. Insomma, un mezzo deficiente.
Anche se, essendo autoironico, ovviamente non penso di “deficere” in qualcosa. La mia alta considerazione egocentrica ed eremitica proveniva, ed era strutturata a strati, per lo più gommosi e rifrangenti, dalle varie vicissitudini ed esperienze particolari che una persona nell’arco di una vita comune e ordinaria non sempre può vivere. Fortunatamente.
Poi un giorno mi capitò che la pressione arteriosa salì a limiti inverosimili ed inaccettabili e la mia indistruttibilità cominciò a vacillare. Potevo morire e stavo male.
Niente di che, basta una pastiglia del cazzo e tutto si regola, ma la paura, bestia sconosciuta in quei giorni, si impossessò di me. Scoprivo di essere mortale. E questo mi dispiaceva assai.
Anche mio padre, spia (lui diceva controspionaggio, e aveva ragione) italiana e professore universitario, era come me, o io come lui: si riteneva immortale e superiore.
Poi un giorno di primavera scoprì di avere un cancro, anzi una metastasi, in realtà era già tutto una metastasi. Morì dopo un anno. Aveva cinquantasei anni tra sofferenze atroci su una branda qualsiasi in una città qualsiasi, che non era la sua.
E io non c’ero.
Non partecipai al suo funerale, ero “in terra straniera”, e comunque non ci sarei mai andato.
Era il mio dio e ogni dio, Allah, padre eterno che sia è immortale.
Da allora non ci siamo più rivisti, né qui né al cimitero, perché la continuazione della specie esige continuità, e senza una guida, un dio, una speranza, una fonte, non vai da nessuna parte, a meno che tu stesso non sia un creatore di valori e quindi, mi si scusi la ripetizione, un dio.
Venendo a me, alla mia ipertensione, posso dire che questa all’inizio mi cambiò: non potevo bere, fumare, mangiare grassi, soprattutto salami, fare allenamento…ero un vecchio.
Me ne fottei. Appena tutto si regolarizzò, pressione, analisi, paura, ritornai a essere me stesso. Ma questa è un’altra storia…
A questo punto, io che avevo vissuto tra le stelle, le stalle, le fogne, che avevo lottato per sopravvivere tra di gente di merda, lurida e schifosa, che ne ero uscito forte e vivo da stagioni inenarrabili e meandri sparsi tra abissi e tunnel senza parvenza di luce, io che mi ritenevo trasformato e navigato, un topo di fogna velenoso e aggressivo, vacillai.
Non volevo soffrire inutilmente e solo.
Ecco, fu a questo punto che sorse di nuovo in me l’idea dell’accelerazione della fine delle prossime sofferenze.
A disposizione avevo diversi mezzi di auto-soppressione: un pugnale, un fucile, una corda.
Facendo harakiri avrei impiegato da un minimo di un minuto a cinque per morire, e la sofferenza sarebbe stata lunga.
Tagliarmi le vene sarebbe stato peggio: avrei visto la morte impossessarsi di me lentamente. Una fucilata o la corda al collo mi avrebbero fatto patire di meno: un minuto o poco più, non so se con coscienza o meno come le prime opzioni.
Vabbè, decisi per la fucilata alla tempia destra. Un pallettone da cinghiale mi avrebbe rasserenato per sempre e velocemente.
Presi il fucile, inserii il cal. 12 in canna…e mi sparai.
Mi svegliai di soprassalto in camera da letto.
Il cane pastore maschio era sdraiato sul mio letto e mi leccava il viso. Cazzo ero vivo.
Avevo avuto un incubo. Ma mi risvegliavo fortunatamente vivo.
Il dolce mondo era ancora intatto. Mia moglie coricata accanto a me, ancora intorpidita dal caldo delle coperte.
Era sabato mattina e dovevamo uscire per la spesa.
Dolcemente cominciai a svegliarla.
Lei si girò di scatto verso di me, mi guardò con due occhi vitrei glaciali… e mi sbranò con morsi disumani.
Joe Vanni