di Linda Bartalucci Lercari
L’apocalisse zombie arrivò del tutto inaspettata e si propagò, virulenta, alla velocità del suono. Avrebbe dovuto essere un esperimento arginabile di guerra batteriologica, ma l’idea che ebbe uno degli scienziati, ascoltando il figlio quindicenne, scatenò la fine del mondo.
Il virus fu scatenato durante la più famosa convention di fumetti e giochi di ruolo d’America che quell’anno, per l’occasione del centenario, si svolgeva in centro città e non nei soliti capannoni industriali isolati.
Mezzo milione di persone stipate fra le vie, molti, troppi di loro, truccati da personaggi dei fumetti, dei film e dei videogiochi preferiti. Peccato che da qualche anno l’intrattenimento si rivolgesse soprattutto alla figura dei morti viventi. Volti maciullati, mezzi teschi sorridenti, finte lacerazioni e sangue di barbabietola grondante da guance spolpate e braccia strappate. I figuranti si dimostrarono bravissimi nel camminare ciondonaldo e tentando di mordere a vuoto.
Fin troppo facile. Nessuno si rese conto del pericolo sino a che non fu troppo tardi. Gli infetti si muovevano a scatti, gli occhi vitrei, non per l’effetto di speciali lenti a contatto, alla frenetica ricerca di nuova carne da mordere. La morte in maschera correva mietendo ignare vittime nell’allegra bolgia, nel calderone umano in costume.
Il primo fu un condannato a morte. Non riuscì a credere ai suoi occhi quando lo portarono fuori dal carcere. Gli dissero che gli era stata concessa una sorta di amnistia purché si comportasse bene durante il festival. Una specie di esperimento sociale. Non furono convincenti, ma ogni istante passato fuori di prigione era come un anno in più di vita per lui.
Guardò il cielo, così azzurro da far paura e inspirò. Che buona l’aria! Non sapeva di metallo come quella che passava attraverso le sbarre. Fu la sua ultima boccata d’ossigeno. L’iniezione arrivò inaspettata e subito i suoi occhi si spensero, il cervello cancellò ogni ricordo e il cuore, dopo tanto patire, si arrese.
Solo la smania rimase, la voglia di modere, di masticare. Se avesse potuto ragionare si sarebbe reso conto che non era lo stimolo della fame a farlo muovere. Digrignò i denti così violentemente che un paio si spezzarono; le mani tremavano convulsamente. Attaccò il primo passante che gli capitò a tiro.
La signora grassoccia non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto accadeva. Il dolore infucato alla gola, il morso efferato. No! Perché a lei? Perché oggi? Non voleva… Non voleva morire… Si accasciò sotto il peso dell’aggressore.
In molti scattarono foto coi loro cellulari di ultima generazione – e non per modo di dire: non ce ne sarebbe mai più stata un’altra – mandando ad amici e parenti immagini di quella che pensavano fosse una ghiotta performance di figuranti professionisti.
Fu l’odore del sangue, ma ne dovette scorrere parecchio, che scatenò, finalmente, il panico. L’aroma metallico e dolciastro salì sino ai primi piani delle case e fu il terrore. I morti calpestati dalla gente impazzita furono forse di più di quelli infettati dal virus. Chi si buttava sopra i corpi, chi moriva schiacciato fra il fiume di persone e i muri delle case. Strisciate rossastre quale testimonianza di corpi trascinati per metri dal nemico più pericoloso: la paura.
Qualcuno trovò rifugio negli androni, cercando qualche oggetto con cui difendersi. Fu terribile constatare che la città offrisse così pochi angoli sicuri e praticamente niente con cui costruirsi un’arma.
Chris si accucciò in un angolo e si tappò le orecchie. Non riusciva a respirare e l’apnea gli impediva di ragionare lucidamente. Doveva calmarsi, ma era impossibile.
Un uomo dal volto semimasticato gli fu addosso. Non seppe mai se fu l’istinto di conservazione o la fortuna che gli fece usare lo zaino come scudo. Spinse la borsa in faccia all’aggressore, premendo con tutte le sue forze sulla bocca schiumante.
Impazzito, cominciò a scalciare. Ancora la dea bendata gli fece sferrare un colpo secco sul volto dell’aggressore. Il piede affondò nel setto nasale dell’uomo, spingendolo sin dentro al cervello. Il tipo si accasciò come una marionetta senza fili.
Ah, che buona l’aria. Inspirò a pieni polmoni e mille stelle roventi gli si accesero dietro gli occhi. La paura era un blocco solido che non si poteva deglutire. Disincastrò la scarpa dal cranio maciullato e quasi vomitò dallo schifo. Materia grigiastra e robaccia appiccicosa grondavano dalla caviglia alla suola.
Nonostante i conati dovette reprimere il riso: sarebbe stato troppo, troppo stupido scivolare e slogarsi una caviglia a causa di quel “fango cerebrale”. La cosa lo divertiva tantissimo o, forse, era in preda a una crisi isterica e non se ne rendeva conto.
Si affacciò fuori. Il suo angolino era tranquillo, ma non sufficientemente riparato. La calca si stava spostando un po’ più lontano e in quel momento non c’era anima viva per una buona porzione di strada. Raccolse lo zaino inzaccherato e tentò la fortuna in un portone che aveva visto poco prima.
Una ragazza gli corse incontro, gli occhi fuori dalle orbite e il volto contorto dal terrore. Dietro di lei un altro di quegli esseri orribili. La porta ancora troppo lontana.
Decise di fare l’eroe, afferrò lo zaino e lo lanciò addosso all’inseguitore; questi vi inciampò malamente cadendo, però, addosso alla ragazza. Fu terribile vederla mordere ferocemente, le urla gli arrivarono sino al cuore pulsante nel cervello. Si sentì uno schifo assoluto per la sua idiozia, ma ripiegò nel portone: cos’altro poteva mai fare?
Il buio lo colpì come un pugno in faccia. Non poteva vedere niente e non poteva neppure aprire di nuovo il battente per far entrare uno spiraglio di luce: troppo rischioso. Le grida di poc’anzi ancora gli rimbombavano come una campana nel cranio e si stava di nuovo dimenticando di respirare. Tentò di calmarsi, doveva riuscire a capire se era solo oppure se qualcun altro si fosse nascosto come lui.
Qualcosa di peloso lo sfiorò. A tentoni capì che doveva essere un gatto. Grosso e caldo, gli si strusciò sulle gambe e gli montò sulle scarpe. Percepì un moto rassicurante, sì, stava facendo le fusa. Se un gatto fa le fusa vuol dire che va tutto bene.
Non andò tutto bene. Un attimo dopo qualcosa di bavoso e stridulo lo attaccò alle spalle. Si era fatalmente distratto. Si voltò e, anche se non poteva vederlo, capì perfettamente di essersi rinchiuso insieme a uno di quegli esseri. Cominciò a urlare con quanto fiato aveva in gola, scivolò e si mise in un angolo scalciando e urlando. Non vedeva niente, niente! La creatura gli fu addosso e si avventò. L’imbottitura della giacca lo salvò dal primo morso, ma quanto avrebbe potuto resistere? Non voleva morire, non voleva morire; solo quel mantra nel cervello e il panico totale.
Afferrò la fronte di quella “cosa” e con tutta la forza richiamata dalla paura riuscì a spaccarla contro il muro. Un gorgoglio e poi il nulla. I polmoni di Chris erano due prugne infuocate. La bocca impastata di saliva acida.
Capì finalmente di essere solo e, a tentoni, raggiunse una rampa di scale. Salì. Cos’altro poteva fare ormai? Il gatto di poc’anzi gli danzò attorno facendolo quasi cadere più di una volta. Poi arrivò a un pianerottolo con una finestra. Si affacciò.
Sulla strada un grande tappeto rosso, ma non di tessuto, di sangue. Tutt’intorno drappi di carne sbrindellati e pezzi di vestiti strappati. Le stoffe dei cosplayers come un carnevale di coriandoli masticati. Urla disumane quale caconfonica fanfara. Chris respirò l’aria metallica e sgranò gli occhi davanti a quell’efferato zombie festival.
Linda Bartalucci Lercari
bello! .. davvero bello e coinvolgente!!!
Il racconto è scritto molto bene, il tuo stile mi ha colpito. Complimenti