di Nicola Furia
Il Generale con movimenti lenti ma esperti, vincendo il tremore alle mani che ormai non lo abbandonava più, si accese la pipa e si specchiò per l’ultima volta.
L’uniforme mimetica avvolgeva quel corpo avvizzito, ma ancora fiero, di ottant’enne. Notando con disappunto la piega ai pantaloni, rivolse uno sguardo severo di muto rimprovero alla giovane badante che lo osservava colma di ammirazione. “Cretina!”, pensò, “La piega ad un pantalone mimetico non si fa! E’ un uniforme da combattimento questa, non da cerimonia”.
Gli anfibi rilucevano spendenti gareggiando con il bagliore delle medaglie e dei nastrini appuntati orgogliosamente sul petto. Con disgusto guardò la fondina vuota agganciata al cinturone di cordura verde che gli fasciava la vita. Da oltre un decennio era vietato girare armati all’interno di tutte le circoscrizioni dello Stato. Gli unici autorizzati a farlo erano le milizie del Governo, una massa di giovani idioti in divisa ciecamente fedeli ai loro padroni.
Il Generale era in pensione da ormai vent’anni e trenta ne erano trascorsi dalla fine delle ostilità. Gli zombie erano ormai un incubo sempre più sbiadito, prova ne era che la nuova generazione non ne aveva mai visto uno dal “vivo”. Trent’anni. Oggi ricorreva proprio l’anniversario della fine della guerra e una sfarzosa cerimonia avrebbe omaggiato gli eroi del tempo che fu e arriso al sol dell’avvenire.
Lui, che aveva sempre snobbato queste “pagliacciate”, inaspettatamente cedette seppur con riluttanza alle lusinghe del giovane e rampante Ministro della Difesa. Come mai?
«Generale, non può dirmi di no. La cerimonia inizierà in forma ristretta al Parlamento e lei terrà un discorso augurale. Non può esimersi. Lei è un simbolo di questo nuovo Stato… e poi lo deve a mio padre!”
Nuovo Stato? Cosa cazzo c’era di nuovo in quella democrazia marcia e corrotta che stava risorgendo dalle ceneri della catastrofe? In quegli occhi vispi di bambino viziato, il vecchio soldato rivide la decadenza della società nella quale era nato. In quei sorrisi melliflui e falsi riconobbe i vizi del potere autorigeneratosi. Era vecchio, ma non rincoglionito del tutto per non comprendere che quell’invito aveva il suo bel tornaconto per l’imbelle politico. Il padre del ministro, infatti, combatté al fianco del Generale sin dai primi giorni del caos. Era stato lo stesso Generale a sparargli pietosamente un colpo di pistola tra gli occhi quando si infettò nel corso del “rastrellamento finale”. Riuscire a convincere quell’antico coriaceo guerriero a mettere piede in Parlamento sotto la sua sponsorizzazione, era un’abile mossa politica. In qualche modo i meriti dell’eroico genitore si sarebbero trasmessi al figlio codardo. La presenza del Generale avrebbe inoltre sancito palesemente il passaggio di consegne dal vecchio al nuovo… e proprio nelle manine del Ministro, quelle stesse manine pulite che non avevano mai imbracciato un’arma.
Ma la vita andava avanti. Nulla si creava e nulla si distruggeva, ma tutto cambiava forma per poi tornare alla medesima sostanza. I giorni della guerra, della fratellanza, della pragmatica bellica e dell’emergenza erano ormai finiti. Sarebbe stato stupido e forse anche narcisista rifiutare l’evoluzione continuando a barricarsi in casa, nutrito da flebo di ricordi e speranze di un mondo migliore. E così accettò l’invito. La sua ribellione si palesò solo nel rifiutare sdegnosamente il discorso già preparato dallo staff del Ministro. Avrebbe parlato a braccio, come aveva sempre fatto sulle barricate.
Con mano tremate si pettinò i radi capelli canuti all’indietro, calzò il basco amaranto, si lisciò i baffi e la barba bianca e, con passo claudicante, uscì di casa.
«Ragazzi, prima di entrare nell’auditorium, volevo fare un brindisi con voi, i nuovi guerrieri di questa nuova società!» esordì il Generale circondato da una cinquantina di imberbi miliziani, addetti alla vigilanza del Palazzo, che si accalcavano per stringergli la mano. La leggenda si era fusa con la realtà trasformando il Generale nel simbolo della guerra contro gli zombie. Per quei ragazzini in divisa poterlo vedere e toccare era un emozione dirompente nonché un’esperienza di cui vantarsi con i colleghi.
«Signor Generale, come andò veramente sulle alture di fuoco?»
«Cosa pensò nei giorni dell’assedio?»
«Ci racconti di quando rimase isolato per tre giorni dopo l’invasione del Borgo!»
«Come riuscì ad amputarsi da solo la gamba nelle Valli Bianche?»
Il provvidenziale e burbero intervento del Sergente salvò il Generale dall’accerchiamento. Provvidenziali si rivelarono poi gli schioppi simultanei dei tappi di spumante, riserva personale dell’Ufficiale elargita generosamente per l’occasione.
«All’onore di indossare un uniforme, sia in pace che in guerra!», brindò il Generale alzando il calice subito imitato dai baby soldati. Il vino effervescente fu trangugiato così avidamente da rendere impossibile assaporarne il gusto.
«Questo lo beva lei, Sergente», disse l’anziano Ufficiale passando il suo calice al graduato, «dovrò affrontare un pericolo non meno temibile degli zombie lì dentro, e non voglio arrivarci con le idee confuse», concluse scambiando un sorriso di complicità con l’uomo.
L’ingresso in aula del vecchio soldato zoppicante pose immediatamente fine al brusio annoiato dei parlamentari. Nel salire le scale per raggiungere lo scranno, il Generale inciampò. Quella maledetta gamba di legno, alleatasi con l’artrite galoppante, stava riducendo al minimo le funzioni motorie. Rifiutò energicamente l’offerta di aiuto di un commesso della Camera e raggiunse il palco ignorando le risatine sommesse provenienti dai banchi parlamentari. Sapeva benissimo cosa stavano pensando… “Che palle doversi sorbire le chiacchiere di questo vecchio rincoglionito con un piede nella fossa! Speriamo che quelli come lui tirino al più presto le cuoia e si possa ritornare alla normalità”.
Il Generale si schiarì la voce rauca e, dopo una strenua lotta con i dolori dorsali, si impettì e iniziò a parlare.
«Signori, sono onorato di essere qui in questa ricorrenza. Ben trent’anni ci separano dall’incubo dei morti viventi, il peggior flagello che il mondo abbia mai affrontato. Sono ormai lontani gli anni in cui pensavamo di estinguerci, di soccombere al virus più osceno dell’universo. Ma l’uomo è sopravvissuto a questa prova tremenda e noi, oggi, con orgoglio celebriamo la rinascita!”.
Un fiacco applauso sottolineò l’arringa. Nelle file posteriori qualcuno sbadigliò e in molti cominciarono a tormentare i cellulari.
«Non vi dirò quanto tremendi furono quei giorni, non vi parlerò di paura, disperazione, angoscia. NO! Vi parlerò, invece, di speranza. Speranza per un mondo migliore. Sì, signori, questa fu la motivazione che ci spinse ad andare avanti, rifiutando la resa e l’abbandono. Combattemmo non solo per sconfiggere gli zombie, ma per ricostruire una società nuova, giusta, equa. Quel senso di fratellanza che ci univa di fronte ad un comune nemico alimentava in noi l’auspicio di una diversa realtà».
Ormai non lo seguiva più nessuno e in molti iniziarono a parlottare tra di loro incuranti della sua presenza. “Tanto vecchio com’è, sarà pure sordo”.
«Oggi vi vedo qui di fronte a me e capisco quanto vana sia stata quella speranza. Guardo una massa di maiali scampati al macello, pronti a spartirsi i brandelli di questa società. Dopo i morsi degli zombie, ecco arrivare i vostri morsi ancora più bramosi e famelici!».
L’ultima frase giunse come una violenta sferzata sulle facce sbigottite dei politici. Il Ministro della Difesa, in evidente imbarazzo, scattò in piedi e, allargando le braccia, rivolse un’espressione di scusa ai presenti.
«Grazie al sangue versato dai vostri padri nessun pericolo è più alle porte», proseguì il Generale. «Presto sotterrerete i pochi sopravvissuti della prima ora e con loro il ricordo di un inutile sacrificio. Avete pensato bene di sciogliere l’Esercito di Liberazione, chiudere le caserme, requisire le armi, abrogare le Leggi di Guerra. Le uniche armi in circolazione ora sono quelle della corruzione e dell’arrivismo sfrenato con le quali governerete il mondo».
«Generale, io non le consento…», tentò di protestare il giovane Ministro rosso in volto.
«Sono io che non vi consento di far risorgere la società dei miei avi vigliacchi!», urlò con voce rauca il Generale. «Avete chiuso anche i laboratori di ricerca malgrado non siano mai riusciti a scoprire le origine del male che ci ha portato al baratro. Ma poco prima che la guerra finisse e voi saliste al potere, ebbi una felice intuizione e riuscii a trafugare da quei laboratori le provette contenenti la saliva degli zombie!».
Un brusio allarmato dilagò nelle sale del Palazzo. I politici ora erano tutti in piedi e pendevano esterrefatti dalle labbra del soldato.
«In questo momento il virus maledetto viaggia nelle arterie dei vostri giovani miliziani, mischiato allo spumante che gli ho offerto».
Fu proprio in quel momento che la porta di ingresso si spalancò e un orda di miliziani ferocemente cadaverici irruppe nella sala lanciandosi sugli attoniti parlamentari.
«Bentornati Mostri!», esclamò il Generale sovrastando le urla di disperazione e i ringhi bestiali. «Cibatevi delle loro carni malate e riportate in terra il caos purificatore! Completate la vostra opera distruttrice e trasformateli in modo che ognuno possa vedere i loro veri volti!».
E il Generale rise a crepapelle mentre le carni dilaniate eruttavano schizzi di sangue in ogni angolo della sala. Rise come un ossesso mentre le vittime urlavano abbrancate nella ricerca impossibile di una via di fuga. Rise e continuò a farlo finché anche la sua gola fu squarciata dai morsi selvaggi e, mentre spirava soddisfatto, ricordò con ironia un aforisma bellico.
“Quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna scegliere dei nemici più deboli”.
Nicola Furia