di Frank Gatti
«Come stai»?
«Una merda»!
Alla sua risposta annuisco. Più che fisicamente è conciato male moralmente. Ieri il mondo gli è crollato addosso e da oggi dovrà affrontare la vita che gli rimane senza la sua ragazza. È logico si senta una merda, ma sopravviverà. È sopravvissuto per venti giorni in condizioni peggiori, da quando tutto questo è iniziato; ne sopravviverà ancora uno.
Entrambi abbiamo visto morire le nostre famiglie. I parenti. Gli amici. Io ho perso una moglie, quindici giorni fa; ed era incinta. Ma in situazioni del genere non c’è spazio al dolore. Chiudi le porte alle emozioni. Cerchi di vivere il più a lungo possibile! Diventi egoista. Limiti la generosità a persone che ritieni importanti per la tua sopravvivenza.
Non ti leghi a nessuno.
«Bene, un progresso l’abbiamo fatto».
«Cazzo vuoi dire»?
«Che è meglio del “vai a fare in culo” che mi hai vomitato sulle scarpe ieri sera»!
«Merda! Casino»?
«Già! non immagini quanto»…
«Riusciti a contenerli»?
«Sei ancora vivo, no»?!
«Cosa vuoi? una pacca sulla spalla o un bacio in bocca ?»
Sorride serio nel dirmelo, tenendosi la borsa del ghiaccio sulla fronte. L’occhio gonfio. Tumefatto. Nel suo modo burbero mi sta ringraziando. Oltre non ci permettiamo di andare. Lo so io. Lo sa lui. Poi la domanda. Come un treno merci dritto allo stomaco.
«Gli altri? Sabrina»?.
«Andata…
«così gli altri»!
Gli altri: Dario, Anna, Silvia, Ilario, Giovanni… Sabrina. La vecchia forza. Lo zoccolo duro. I veterani. Tutti qui, presenti a pezzi, sparsi per casa.
«Ascolta, mi do una ripulita dal sangue e chiudo un attimo gli occhi».
«Te la senti di prendere il mio posto ?»
«HMMM …»
«Cos’è? un sì o un no ?»
«Chi c’è di la? Chi è… rimasto ?!»
«I tre pirla che ha… che aveva portato Sabrina, mercoledì. I tuoi quattro ed i due che ho trovato io lunedì!».
In pratica gli ultimi sopravvissuti da noi rintracciati, quando ancora era possibile uscire.
«Merda!».
«Dai, non sono poi così male».
«I tuoi no! I miei si possono arrangiare. Ma quelli di Sabrina…
«cazzo, glielo avevo detto che quei tre ci avrebbero messo nei casini e…
«Merda! guarda cos’è successo».
La frase gli si smorza in gola in un singulto di dolore. I tre pirla sono stati la causa della morte di Sabrina; ma lei sapeva il pericolo che correva arruolando certa gente.
«I bastardi non sono riusciti a pararle il culo !»
«Già… ascolta, lo so che è difficile, ma ora non ha più importanza, no ?»
«Franco, dimmi… sinceramente. Cos’è che ha ancora importanza ?!»
Rispondo arruffandogli affettuosamente i capelli. Poi mi alzo dalla branda e vado in bagno per la veloce ripulita. Ma prima di entrare lo guardo. Un mese fa Stefano lavorava come commesso in una grossa azienda di prodotti per la casa. Era un pacifista. Non aveva mai usato un arma e, soprattutto, mai aveva ucciso. Un mese fa aveva 23 anni.
Oggi, come ognuno di noi, ne dimostra il doppio!
«Stefano, per quello che conta siamo noi».
«Noi, cosa ?»
«Le cose importanti».
Non dico nient’altro. Ci limitiamo a guardarci. Infine, ambedue evitando di scoppiare a piangere (blocca le emozioni). Io entro in bagno e lui se ne va in sala ad impartire ordini al posto mio.
Sono stanco e mi sono lasciato fregare. Il sangue rappreso sul volto è un campo rosso, arato da lacrime che lasciano solchi puliti e dissodati nella brutalità del giorno di violenza appena trascorso. Mi guardo allo specchio. Sono irriconoscibile in questo lordume. La barba lunga (radermi era una delle cose primarie quando tutto era normale) con qualche accenno grigio. Il fisico scarno, dimagrito forse più di dieci chili. Lei ne sarebbe felice; mi riteneva obeso nei (tanti) chili di troppo, ben distribuiti per una bassa altezza.
«Hai visto, Carla? dicevi che non sarei mai riuscito a calare; invece»…
Già, sarebbe soddisfatta del peso attuale.
L’orologio, un altro suo triste ricordo. Il regalo per l’ottima, e cercata da entrambi, opera di fecondazione attuata nei suoi confronti. L’orologio che in futuro avrei dato a mio figlio. Lui al suo, e cosi via.
«Idiota; concentrati. Blocca le emozioni! Guarda che ore sono !»
Le 01:43.
Tra poche ore l’alba potrebbe segnare l’inizio dell’ultimo giorno, quindi chi se ne frega. E finalmente mi lascio andare ad un pianto liberatorio.
Senza fine.
Quando Stefano mi chiama sono le 05:00. Tra meno di mezz’ora, con la rinnovata luce (basta il primo flebile raggio di sole a sfiorarli), inizierà l’attacco. Mi sono addormentato sulla tazza del cesso e sono indolenzito. Stiro la vecchia carcassa; ossa e muscoli sbraitano la loro contrarietà. Quindi, massaggiandomi, esplico quello che è diventato il nostro usuale saluto.
«Com’è andata stanotte ?»
«Come le altre notti; se ne stanno lì, fermi a guardarci», e si blocca, fissandomi sornione finché in tono comprensivo riprende. Una domanda a sorpresa.
«Hai pianto ?»
«Scusa !?»
«Sì, insomma… si vede. Non ti sei lavato. Le lacrime, ti hanno segnato le guance».
Mi guardo allo specchio. Ha ragione. La pelle del viso pare cartapecora a differenza della zona sotto gli occhi, bianca, in netto contrasto con il colore ruggine del sangue coagulato.
«Cazzo !»
«Non prendertela. Mica puoi sempre fare il duro per incoraggiarci tutti».
Stefano; caro, dolce ragazzo. Non posso immaginarti stanotte, vicino al cadavere a pezzi di Sabrina. Non immagino cosa tu hai dovuto mostrare agli altri.
«Ogni tanto avremo pure il diritto di lasciarci andare».
E per la prima volta da quando lo conosco, da quando ho perso Carla, lo sfioro in un fugace abbraccio fantasma.
«OK; forza, gli altri aspettano».
«Vai, io ti raggiungo… appena lavata la faccia».
Siamo entrambi sorpresi. Felici. Ancora pieni di lacrime. Il breve rapporto di umano calore ci ha fatto bene. Ci ha ricordato cosa siamo.
Arrivato in sala mi salutano con riverenziale rispetto. Sono tutti davanti alle finestre, tesi, spaventati; in attesa di loro. Aspettano la luce che li desterà, facendoli arrivare invisibili, silenziosi e velocissimi a prendere le nostre vite. Sono colpito da come Stefano è stato in grado di organizzare i gruppi di difesa, oltre che il resto. I tre pirla, separati, fanno coppia con i più esperti. Le finestre sfondate, dalle quali ieri loro sono entrati, chiuse con le porte metalliche dell’abitazione. Non reggeranno, ma l’idea, anche se da film, è buona.
I pezzi di cadaveri dei compagni (e quello di Sabrina) gettati all’esterno.
Questa è la cosa che mi ha fatto più male.
Io e Stefano ci mettiamo al nostro posto. Controlliamo armi più volte controllate. Conto i caricatori che ha preparato e diviso equamente per i componenti del gruppo.
«Cristo! sono rimasti solo questi ?»
«Questi. Sei casse di proiettili e tre di granate… mica male se dico che oggi ci fotteranno alla grande».
«Già».
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Gli altri ci osservano. Forse ci prendono per pazzi, anche se sono sicuro che hanno avuto la nostra stessa sensazione di fine, perché Loro sono lì, velati in lucidi e neri impermeabili di cuoio, corvi in fattezze umane, separati da noi da mezzo metro di cemento. Sono lì e ci scrutano, falsamente immobili.
«Merda, non mi ci abituerò mai. Di giorno è brutto, ma di notte è anche peggio! E quegli occhi… è snervante».
So cosa vuol dire. Quando cala il buio le cose peggiorano in modo del tutto inusitato. Nel preciso istante in cui il sole muore, di colpo, loro, lì dove si trovavano nel momento dell’attacco, si arrestano e si accoccolano in punta di piedi, piegati sulle ginocchia. Braccia rilassate protese in avanti. Con l’oscurità l’attività vitale rallenta (vitale? che idiozia questa parola. Non sono vivi. Non sono morti. Non sono nulla. Sono tutto. Aberranti angeli sterminatori che per identificarli abbiamo chiamato zombi. Solo che non sono come quelli che tutti si immaginavano. Sono il contrario di tutto ciò che abbiamo sempre creduto)! Cadono in una specie di letargo vegetativo. Riposano, ma è un sonno non dormito. Si ricaricano. Ma soprattutto ti guardano, fissandoti con quei maledetti sguardi, assenti, apatici; persi in occhi completamente neri, profondi, abissali.
Inesistenti.
Le prime volte, di notte, a vederli cadere in questa sorta di falsa apatia sembrò facile potergli fuggire. Qualcuno di noi (Carla) ha tentato. I loro miseri resti in putrefazione sulle scale è il monito che in questo stato sono più letali che mai. L’ho detto, sembra dormano; in realtà rimangono all’erta. Basta un piede fuori casa, due passi, e quelli ai quali ti trovi più vicino (ne basta uno solo) si “destano”. E in un lampo ti ritrovi a pezzi. Di notte la loro arma migliore è l’inverosimile velocità. La forza, dieci uomini in uno, rimane invariata.
La buia tenebra si tinge di viola. Da dietro le montagne il chiarore del sole in travaglio preannuncia la nascita del nuovo lungo giorno estivo. I primi fremiti colpiscono i nostri carnefici. Il frusciare del cuoio è fastidioso. L’oscura coltre di impermeabili (gli spazi vuoti di ieri ora definitivamente colmati) è spaventosa, immane. Gravida! A questa marea nera rispondono i gemiti disperati dei tre pirla colpevoli della morte di Sabrina. Io e Stefano ci guardiamo e sorridiamo. Qualcuno inizia a pregare. Altri imprecano. E quando dalle vette montane appare la prima attesa curva vermiglia di sole, togliamo le sicure e mettiamo il colpo in canna; tra poco il calore dei raggi farà il suo dovere.
L’alba. La prima vera luce accarezza parte del nero branco. Quelli colpiti si alzano lentamente, come in un orrida moviola. Lo strusciare del cuoio diventa insopportabile. Abbiamo ancora pochi minuti prima che tutti si destino. Prima che il sole li avviluppi all’unisono. Stefano mi batte una mano sulla spalla.
«Merda, ma guarda che giornata».
Già, sembra che oggi sarà una splendida giornata. Il cielo terso, senza nuvole. Da lontano mi arriva il canto di un uccello.
«Carla, tesoro, non abbiamo mai iniziato quel corso di “birdwatching”».
«Hei, Franco».
È Stefano. Mi riporta alla realtà.
«È stato un piacere ed un onore conoscerti».
Mi tende la mano. Io gliela scanso e lo abbraccio, finalmente con calore.
«No! l’onore è stato mio… Amico».
A quest’ultimo vocabolo scoppiamo in lacrime.
«Grazie… Amico».
Siamo felici.
Non moriremo soli.
Adesso non ci resta che aspettare.
Oggi è l’ultimo giorno!
Frank Gatti