di Federica Rubini
Non ero mai andata d’accordo con mia suocera.
-Elena, cara, potevi mettere un po’ più di sale nello sformato-
-Elena, tesoro, cos’è successo che è tutto impolverato?-
Ero sempre troppo poco elegante, troppo poco esile, troppo poco slanciata. I miei piatti non erano mai abbastanza buoni, o troppo salati o troppo insipidi.
Cercai la sua approvazione i primi anni, poi covai rabbia. Io stavo zitta e mio marito non mi credeva quando gli dicevo di tutte quelle osservazioni, perché lei era furba, non mi criticava mai davanti ad altri.
Credo che mi avesse sempre rinfacciato il fatto di aver sposato suo figlio. Lei avrebbe voluto di meglio.
Quella rabbia repressa mi causò non pochi problemi di salute: un’ulcera perforante che mi portò in ospedale, tra le altre cose.
Quella situazione continuò fino a quando non seppi che era morta. Nascosi le mie espressioni di soddisfazione solo per rispetto al dolore di mio marito, ma dentro di me ballavo dalla gioia.
Volli entrare a vederla, prima che venisse sepolta: volevo essere sicura che fosse davvero morta.
M’inginocchiai davanti al feretro, tutti parlavano sommessamente –Vado a salutare i miei cugini, sono appena arrivati- Mi disse mio marito, gli feci un cenno e lui scomparve.
Rimasi lì ad imprecare mentalmente contro quella donna che mi aveva rovinato l’esistenza negli ultimi anni.
Continuavo a fissarla con la paura che aprisse gli occhi, già me la immaginavo:
-Elena, tesoro, ma cosa ti sei messa addosso?-
Poteva farlo, eravamo solo io e lei.
Poi mi accorsi di qualcosa, nonostante i minuti passati lì non lo avevo notato prima, ma sembrava quasi che respirasse. Pensai ad un’allucinazione. Fissai lo sguardo sul suo petto: respirava per davvero!
Le mani mi fremevano, mentre cercavo lo specchietto che sempre mi portavo appresso all’interno della borsetta. Lo misi sotto le narici di mia suocera e vidi che il vetro si appannava leggermente. La stronza stava respirando ancora! L’angoscia m’assalì. Cosa devo fare? A chi lo dico? Mi guardavo intorno, stordita.
Poi come un lampo che squarcia la notte le risposte arrivarono da sé.
Non avrei detto niente, a nessuno.
Tutti erano convinti che fosse morta e così avrebbero continuato a credere.
Mi ricomposi, mi calmai e uscii dalla stanza, con l’aria afflitta di una nuora che ha dato l’ultimo saluto a sua suocera.
Durante il corteo feci da appoggio a mio marito e cercai più che potevo di mostrarmi afflitta, tentando in tutti i modi di celare anche a me stessa l’orrore di una persona sepolta viva.
Ebbi un sussulto dentro di me quando gli addetti delle pompe funebri inchiodarono il coperchio alla cassa: da quel momento, tutti i miei sensi di colpa, i miei ripensamenti su ciò che stavo tenendo per me, restavano chiusi dentro quella bara con mia suocera non ancora morta.
-Amore che hai? Non pensavo saresti stata così afflitta per la morte di mia madre- Mi disse con amore mio marito, con gli occhi arrossati per le troppe lacrime versate.
-No è che…- Non ricordo cosa gli farfugliai, so solo che con la mente ero sempre là, dentro quella cassa e speravo che quella donna non si risvegliasse dal suo sonno. Neppure lei si meritava una fine del genere!
Dopo due giorni dal funerale, cominciarono ad esserci i primi casi di una strana malattia che trasformava le persone in bestie sanguinarie, pronte a sbranare il prossimo. I morti resuscitavano.
Pensai a mia suocera e nonostante fosse stato introdotto un rigido coprifuoco che i militari distribuiti per i vari quartieri facevano rispettare, corsi al cimitero, in una notte di pioggia.
Le scarpe affondavano nel fango e sopra di me il rombo dei tuoni mi facevano trasalire ad ogni scoppio.
Ebbi fortuna, trovai una pala proprio nelle vicinanze della tomba.
Scavai, scavai, mentre imperversava il temporale. Accanto a me si materializzava, badilata dopo badilata, un cumulo di terra che andò ad accrescersi fino a quando non sbattei contro qualcosa con la pala.
Sentivo i ringhi dei morti, mescolati ai tuoni e agli spari dei militari, al di là dei muri che delimitavano il cimitero.
Feci una rapida valutazione delle circostanze, ero al sicuro, almeno per il momento.
Scesi nella buca, conficcando le dita nel fango che mi rimase sotto le unghie. I vestiti fradici mi stavano incollati addosso come una seconda pelle. Mi ritrovai di fianco alla cassa, m’inginocchiai e sentii i graffi che infuriavano sul coperchio, un rumore continuo, secco.
Poteva essersi trasformata anche lei in uno di questi “cosi” oppure no, ma non lo avrei saputo fino a quando il coperchio non sarebbe stato aperto.
Altri spari si sentirono in lontananza. Grida che riecheggiavano nelle strade.
Cercai con la pala, unico mio strumento a disposizione di aprire la bara.
-Elena, tesoro, ma come sei ridotta?-
Mi fermai.
Queste erano le parole che mi avrebbe potuto dire vedendomi in quell’istante, sporca di terra e bagnata, nonostante io fossi lì per aiutarla.
Che continuasse pure a graffiare, qualsiasi cosa fosse diventata o rimasta.
Posai la pala e la usai per uscire dalla buca poi mi diressi fuori dalle mura del cimitero da dove, almeno per il momento, proveniva solo silenzio.
Federica Rubini