di Viola Della Rina
Ogni giorno lo sentivo sempre più distante, un mezzo sorriso non dato, una mezza parola non detta. Lui ormai non era più mio, lo vedevo nei suoi sguardi, ogni volta che mi salutava per andare al lavoro i suoi occhi non erano più su di me, guardava speranzoso alla porta, come se al di là di essa ci fosse chissà quale promessa. Dopo neanche una settimana scoprii cosa nascondeva quel silenzio. Aveva un nuovo nome e nuovi occhi. Un’altra donna. Subii il colpo con serenità, senza fargli accorgere che sapevo. Ero in quella fase che gli psicologi chiamano “accettazione”: avevo passato la mia intera vita in questa fase.
Avevo accettato di trasferirmi con lui.
Avevo accettato di tagliare i ponti con tutti, compresi i pochi membri della mia famiglia.
Accettavo il fatto di condividerlo.
Dentro di me, nascosta da qualche parte, una scintilla iniziò a bruciare, giorno dopo giorno divampava facendomi conoscere una nuova parola: consapevolezza.
Io meritavo di più, avevo solo 25 anni, mi sarei rifatta una vita. Ogni giorno, mentre Lui era al lavoro, allentavo le mie catene. Iniziai con l’uscire timidamente sul portico, un passo alla volta, un metro al giorno, e dopo una settimana stavo già annusando l’erba fresca del nostro giardino.
Non mi sarei mai azzardata a telefonare a qualcuno, o ad accendere il computer, l’avrebbe saputo immediatamente e a quel punto per me sarebbe stata finita, me l’aveva promesso quel giorno che aveva trovato il messaggio per mio padre e mi aveva frustato fino a farmi sanguinare. Mi limitavo a stare in giardino, nella speranza che qualcuno notasse la mia richiesta di aiuto.
Eravamo a cena quando me lo disse.
<<Ti hanno vista>>
Posò gentilmente la sua forchetta al piatto. Il suo sguardo non lasciava adito a dubbi, non mi sarebbe stata data la possibilità di scusarmi.
Abbassai lo sguardo e feci l’unica cosa che credevo potesse calmarlo: mi tolsi il vestito e gli offrii la mia schiena per farmi punire. Lo sentii aprire un cassetto, soppesare i passi, appoggiarsi alla mia schiena, le sue labbra sull’orecchio.
<<Non ti permetterò di andartene>>
Non sentii neanche dolore, solo una sensazione di calore che si allargava sotto di me. Mi portai una mano alla gola. Avrei voluto urlare, ma mi sentivo sempre più debole. Lo sentii carezzarmi i capelli e sussurrare “per sempre mia”.
Ti chiederai perché ti sto raccontando queste cose, perché proprio a te che adesso hai preso il mio posto, o com’è possibile che riesca a comunicare con te. Questa sera, a cena, hai fatto i complimenti al cuoco e ridendo lui ti ha detto che la sua abilità sarebbe stata vana se non fosse stato per la tenerezza della carne della vacca. Hai riso. Non potevi sapere.
Adesso sono dentro di te, nelle tue viscere, nel tuo sangue. Giù in cantina c’è un frigorifero col tuo nome sopra. Non permetterò che mi uccida di nuovo.
Rachele si svegliò di soprassalto e guardò il suo uomo che dormiva al suo fianco. Doveva essere stato un brutto sogno, sì, evidentemente aveva mangiato troppo.
Si alzò per andare in bagno; dopo una doccia veloce si sarebbe dimenticata di tutto. Le gambe si mossero nella direzione opposta, verso la cantina. Tentava di resistere, ma il corpo continuava a spostarsi senza che potesse fare niente per fermarlo. La porta si aprì silenziosamente, le scale sembrarono muoversi sotto di lei. Riprese il pieno possesso di sé solo quando si trovò di fronte ad un numero infinito di refrigeratori, ognuno con un nome vergato sopra; sull’ultimo, il suo nome pulsava debolmente.
Il colpo arrivò quasi indolore, la luce si spense.
<<Pronto, Simona? Ciao, senti, ti andrebbe di venire a cena da me domani sera?>>
Viola Della Rina