di Joe Vanni
Quella sera, come tutte le sere, aspettavo la metropolitana al capolinea di San Donato. Faceva freddo e non volevo fumare quell’amica sigaretta in superficie. C’era la nebbia piena di gente strana: ubriachi, stranieri, disgraziati (lo ero pure io) che barcollavano e litigavano alla rinfusa, sparpagliati nella semioscurità del piazzale. Laggiù ai binari non c’era nessuno, era la vigilia di Natale. I treni della metro partivano ogni mezz’ora. Stanco e affamato attendevo nella solitudine più tetra. Ero il coordinatore della contabilità dell’azienda per cui lavoravo e non avevo pace.
Da una delle scale mobili scesero, rotolando e strattonandosi, tre uomini. Forse erano drogati e ubriachi, comunque fuori di testa. Mi chiesero una sigaretta. Tirai fuori il pacchetto e ne offrii tre. Se ne andarono. Dopo pochi minuti ritornarono e mi chiesero altre sigarette. Dissi di non averne più. Uno di questi si buttò improvvisamente su di me afferrandomi il collo. Gli diedi una testata in bocca, mi liberai fulmineo e lo buttai nel fossato dei binari. Gli altri due ubriachi a pochi metri, indecisi, li caricai con due pedate nei coglioni, rotolarono a terra come bastardi, li sfinii con calci in faccia.
Una rabbia improvvisa e liberatrice mi era uscita fuori. Corsi fuori per cercare la polizia che di solito girava a più riprese in quel luogo malfamato. Ma non si vedeva neanche un cane. Ridiscesi, cercando disperatamente qualche essere umano, ma non trovai nessuno. Fortunatamente la metro era arrivata. Diedi un’occhiata in giro, per paura di essere nuovamente assalito da quella gente, ma era sparita. Il treno era vuoto, e mi sarei trovato in trappola in caso di nuova aggressione. Alla prima fermata salirono un vecchio bavoso e due prostitute. Schifose, luride come cagne con la scabbia, puzzolenti come una fogna, laide, volgari, e perfino rumorose. Io ero affaticato, non vedevo l’ora di raggiungere il mio monolocale, mangiare una bistecca, rilassarmi con qualche bicchiere di vino rosso e tracannarmi mezza bottiglia di grappa. Ma allora ero astemio.
Intanto le “signore” gridavano e ciarlavano in quella insopportabile e sconosciuta lingua, ridendo sguaiatamente. Non ce la facevo più. Finalmente ero quasi giunto alla fermata, mi alzai e mi diressi alla portiera automatica del treno. D’un tratto una di quelle “zoccole” mi si avvicinò e con la sua puzza di lordura mi abbracciò, mettendo le lunghe unghie sulla patta. Voleva copulare.
“Trentamila lire, bello”.
Mi girai di scatto e con una forza bestiale la strangolai e con un morso le staccai quel grosso naso, dal sapor di maiale decomposto. Le porte si aprirono e fuggii verso la libertà, verso l’aria pura e la civiltà. La fermata era in piazza Corvetto e da lì sarei andato a piazzale Cuoco, dove stava casa. Quella zona di Milano faceva schifo, e di certo non era migliore di quella del capolinea dove ero salito. Sbucai, da una delle tante uscite, correndo con ansia spasmodica. Ero senza fiato. Mi fermai, riposai. Lì fuori alcuni uomini mi circondarono. Non mi fu chiesta una sigaretta. Volevano solo scassarmi. Le loro bocche coi denti bianchi desideravano strapparmi le carni, ma ancora non so come scappai alla loro disumanità. Corsi veloce come non mai per qualche chilometro, fino a quando non desistettero. La mia casetta consisteva in un monolocale al quarto piano di un edificio senza ascensore, in un quartiere di merda. La sera era pericoloso uscire, tanto io non uscivo lo stesso, se non per andare a correre al parco, incontrarmi con gli amici, e andare a lavorare. Il guaio è che dal Corvetto sarei sempre dovuto ripassare per prendere gli stessi mezzi pubblici e la metropolitana. L’indomani sarebbe stato Natale e non mi sarei mosso da casa, ero in ferie! Quei giorni passarono in fretta, e dovetti ritornare al solito lavoro. Ero guardingo. Ma non accadde nulla di tremendo. Un giorno il capo della ditta mi comunicò il trasferimento nella sede centrale di Milano.
Quell’edificio era tetro, enorme, vecchio, vicino alla stazione centrale. All’interno ci si perdeva tra scantinati, dedali di uffici, corridoi, scale, padiglioni e sottopassaggi. Impiegai qualche giorno per non perdermi. Alla reception c’era una cicciona cattiva, gradassa e antipatica. La incontravo spesso. Il mio ufficio era in condivisione con un altro. Mi trovai bene. Anche se era una struttura aperta al pubblico, noi ci facevamo i cazzi nostri. Nell’ufficio c’era una stanza, una specie di ripostiglio con una scrivania, e a terra la moquette verde. La usavo per scopare con una ragazza. Lei mi faceva il filo da qualche giorno, fin quando ruppe il ghiaccio con un “ciao, occhi di plastica”. Fummo veloci. Dopo un po’ di sorrisi e smancerie, in pausa alla macchinetta del caffè le chiesi simpaticamente “quanto vuoi per scopare”, lei rispose “per te è gratis, non te lo potresti permettere”. E ci scopammo.
L’edificio sembrava destinato a un ufficio di collocamento e ispettorato del lavoro. I piani erano sette, o qualcosa del genere, “abitato” da gente con la puzza sotto il naso che io disprezzavo. La detestavo. La maggior parte portava la cravatta, seguendo schemi preconcetti, da manichini semoventi, seguendo delle traiettorie prestabilite e comportamenti da limitate menti annebbiate. Io non ero benvoluto, perché conoscevano il mio passato. Erano soggetti alla morale, e, peggio ancora, erano persone intransigenti.
Io e la tipa “ci scannavamo” ogni giorno sulla moquette verde. Chiudevamo l’ufficio a chiave, e giù a terra negli amplessi. E come esistono le macchine per cucire, per il caffè, lei era una macchina da sesso. Io le dicevo che poteva fare benissimo la troia perché si sarebbe arricchita. Lei se ne fotteva, e continuava a scopare.
-continua-
Joe Vanni