di Serena Aronica
Il sole è sprofondato dentro un cumulo di nubi grasse e ribollenti, nelle loro livide sfumature c’è il presagio di una tempesta a stento trattenuta.
Appollaiato su questo sperone di roccia ammuffita, spazzo con lo sguardo la brulla vallata sotto di me. Ci sono delle vecchie rovine, lasciate lì a farsi rodere dal tempo.
La vedo emergere da dietro quello che resta di un muro maestro. La distanza mi risparmia la vista della sua carne macilenta, delle necrosi che devastano ormai le pieghe del suo corpo, un tempo elastiche e seriche.
Una raffica di vento improvvisa mi fa sbattere gli occhi.
Nel frullare delle mie palpebre l’ho scorta voltarsi verso di me.
Mi libero delle lacrime strappatemi dal vento e torno a cercarla; tra quelle pietre vetuste e polverose la vedo arrancare, come fosse esausta… e forse lo è.
Prima che la sua natura umana collassasse in quel caos di brutale fame, l’ho inchiodata a quel luogo con una catena, come fosse un cane.
Il mondo ormai non è null’altro che una grottesca spina dorsale sconquassata da brividi di violenza. Come lei, sono impigliato in un bisogno primordiale.
Non posso privarmi della sua vista, non riesco a ignorare il bisogno di seguire ogni giorno gli stessi passi fino a questo promontorio sassoso.
Sopra di noi non esiste altro che un cielo furioso e riottoso, sotto al quale anche sperare è diventato un rischio.
Armo il cane del fucile e lo imbraccio. Chiudo un occhio e spalanco l’altro a fissare dentro il mirino. I capelli arruffati e sporchi le pendono flosci davanti alla faccia, ma riesco lo stesso a intravedere il suo sguardo; è vacuo e lattiginoso, ma velato dalla tristezza di chi si è perduto e si sente smarrito.
Il cuore mi diventa un grumo di dolore e lentamente, abbasso il fucile.
Le prime gocce di pioggia mi cadono sul dorso della mano e sul collo.
Nella luce ormai livida inizio a scendere verso le rovine, nella mano stringo una catena che ho già fissato alla mia caviglia, l’altra è tesa verso la bocca nera e spalancata di mia moglie.
Serena Aronica