Il secondo di quattro racconti HORROR – FANTASY di Pergiorgio Melidori: IL CONTE DI MAALFED.
(nomi e luoghi del racconto sono stati ispirati al gioco Magic the Gathering).
Maalfed è una cittadina a sud della Brughiera, ormai in decadenza. Dopo il terribile periodo delle guerre di Avacyn e l’epidemia di febbre mortale che decimò i suoi abitanti nessuno si dedicò più a curare i suoi terreni. Le fattorie nei dintorni sono ormai in rovina da anni e la palude pian piano si sta riprendendo ciò che le è stato strappato a fatica da generazioni. Ora i suoi caratteristici viottoli, una volta pieni di gente indaffarata, sono solo rifugio per ombre, l’ultimo posto in cui un uomo onesto vorrebbe passare la notte… ma non é sempre stato così.
Il suo nome è indissolubilmente legato alla famiglia SanTraft e specialmente alla triste storia del suo ultimo discendente.
Bernàrd SanTraft era un uomo buono, merce rara in tempi così cupi come le Guerre di Avacyn. Assieme alla moglie Rose avevano impegnato tutte le loro risorse nell’aiutare i bisognosi ma soprattutto nel dare rifugio agli orfani, che per la coppia erano come i figli che non avevano mai potuto avere. La palude di Morkrut pullulava di orrori inenarrabili, i morti si rialzavano dalle tombe sacrileghe dei cimiteri dimenticati fra le sue fetide nebbie e Maalfed era ormai l’unico e ultimo baluardo dietro al quale trovare rifugio. Inesorabilmente, uno dopo l’altro i villaggi della Brughiera venivano via via cancellati nel sangue e nel terrore, ma nonostante tutto il buon Bernàrd e la dolce Rose riuscivano ancora a non rifiutare un giaciglio o un pasto caldo a nessuno.
La situazione andava velocemente degenerando e Maalfed iniziava ad essere troppo piccola per accogliere tutti man mano che gli assalti nei villaggi limitrofi si facevano sempre più feroci. Rimasta tagliata fuori dalle vie di comunicazione con Thraben, sopravviveva ormai solo grazie alle ricche riserve della famiglia SanTraft che generosamente venivano messe a disposizione; riserve ormai esigue, in verità.
Come le leggende raccontano, tutto accadde in una notte.
Non appena il conte udì le campane delle vedette rintoccare all’impazzata radunò la milizia cittadina davanti all’accesso principale. Forse “milizia” non era il termine più appropriato: vecchi, donne, ragazzini e uno sparuto gruppo di uomini armati di torce e forconi osservavano Bernàrd senza proferire parola, quasi come cercando di attingere da lui un poco di quel coraggio necessario per non impazzire. I volti erano pallidi e scarni, le membra tremanti e gli occhi arrossati dalle troppe notti passate insonni a causa della continua, tremenda litania di unghie, denti e ossa che dal tramonto all’alba grattavano incessanti i battenti serrati, ultime difese della città. Il numero di queste creature putrescenti andava aumentando ad ogni chiaro di luna e tutti sapevano bene che prima o poi l’inevitabile sarebbe dovuto accadere.
Per un attimo fu il silenzio, assordante nella sua minima ma infinita lunghezza; poi, come fosse divenuta la bocca dell’inferno, la porta principale di Maalfed andò in mille pezzi e vomitò in un ‘orgia di urla disumane tutto l’orrore che celava dietro di sé.
La vita e la morte erano divenute parole snaturate, prive del loro significato. I morti avanzavano sospinti da una forza vitale immonda e blasfema, mentre i vivi erano ormai morti dentro, privati della fede e della speranza, abbandonati alla disperazione più nera.
In tutto questo il Conte si ergeva come un’ultima fiamma, debole ma luminosa come non mai in quella notte così buia. Combatté con la forza della disperazione, tranciando e smembrando ogni abominio gli si parasse davanti. Ai suoi occhi erano corpi deformi, gonfi e bluastri che bramavano la sua carne e il suo sangue caldo. Dinanzi al suo cuore però erano Geoff il maniscalco, Daniel il panettiere, Raphael il dottore, che non aveva voluto abbandonare l’ orfanotrofio e poi loro, i suoi amati ragazzi. Bernàrd li riconobbe uno ad uno, oltre i visi deformati dalla putrefazione, oltre le urla fameliche, oltre gli occhi vitrei. Ogni fendente che menava lo portava un passo più vicino all’abisso.
La battaglia finì all’albeggiare e le ombre si ritirarono verso la palude, trascinando con loro l’ennesimo pesante tributo di sangue.
I vivi erano ancora lì, condannati al ripetersi di quel ciclo, gusci vuoti che anelano la morte ma nonostante tutto rimangono aggrappati all’illusione della vita.
SanTraft fece rientro a casa. Anche stavolta avevano costretto l’orrore a ritirarsi nei suoi ripugnanti sepolcri. Nel suo cuore però non vi erano che tormento e ansia: quante volte, quante volte ancora sarebbe riuscito a difendere la sua città, il suo ultimo bambino, la sua Rose?
L’ imponente porta di ferro e quercia penzolava dai cardini, divelta per quasi tutta la sua lunghezza: la morte era stata lì, se ne sentiva ancora il fetore. Bernàrd corse attraverso le stanze cercando con gli occhi anche un solo minimo segno di vita senza pronunziar parola. Troppe volte aveva assistito a quello scempio, avrebbe voluto urlare a squarciagola ma dentro di sé già sapeva che non avrebbe udito risposta. Tutto era distrutto, macchiato del sangue rappreso delle ombre che camminano: rimaneva solo una scia di silenzio che portava palude. Da quella maledetta sera capì che ormai tutto gravava sulle sue spalle… da quella maledetta sera, purtroppo, nessuno più vide la dolce Rose.
Il Conte ne fu sconvolto ma non crollò, non poteva, doveva rimanere saldo per la sua città e soprattutto per l’ultima sua ragione di vita: il piccolo Sèb. Erano tempi bui e il solo cuore del nobile, per quanto grande sia stato, non bastò a tenere lontane le tenebre. L’ ultima incursione aveva lasciato infatti un nefando strascico.
Il male conosciuto come la ‘’Febbre di Morkrut’’ strisciò fra le mura e si abbattè sulla già afflitta popolazione. Presto numerose pire si accesero nella notte, dando alla città un aspetto sepolcrale.
Era infatti credenza che chi morisse a seguito dei laceranti spasmi della febbre poi si ‘’risvegliasse’’ come pupazzo famelico nelle mani del demonio Griselbrand. I sopravvissuti quindi si affrettavano a bruciare i morti e man mano che il numero aumentava furono costretti a celebrare messe comuni nelle fosse poi incendiate.
Il destino bussò purtroppo anche all’ uscio del piccolo Sèb, il prediletto nonché ultimo sopravvissuto dell’orfanotrofio tanto voluto da Bernàrd. La fronte del bambino iniziò a bruciare e a nulla servirono gli impacchi di erbe medicinali del Kessig.
Il nobile non si arrese e decise che con un ultimo ed estremo tentativo avrebbe portato il piccolo Sèb a Thraben e là, una volta arrivato al tempio, avrebbe chiesto la clemenza dell’Angelo Avacyn. La via più breve era attraversare la palude e i suoi orrori, ma ormai nulla ormai poteva più spaventare Bernàrd, nulla a parte il perdere l’ultima sua ragione di vita.
Si incamminò da solo, con l’infante debole e febbricitante delicatamente adagiato in una cesta assicurata sulle spalle. Si voltò ancora una volta a porgere l’ultimo saluto alla sua amata città e poi sparì nella nebbia. In realtà nessuno dei superstiti cercò di dissuaderlo, misero da parte la loro disperazione e lo lasciarono andare via come ultimo gesto d’amore verso chi tanto aveva saputo dare.
Nessuno sa con esattezza come sia andata: la leggenda comunque dice che il nobile SanTraft perse la strada e vagò nel cuore della maledetta palude di Morkrut. Dice pure che nemmeno questo bastò a piegare la sua volontà e che lottò con tutte le forze sia contro gli abomini che ostacolavano il passo sia contro i sintomi della febbre che nel frattempo lo stava stremando.
Provato oltre ogni limite arrivò in una piccola radura che si elevava al di sopra delle fetide acque e proprio lì arrancò fino a che, sfinito, lasciò cadere il bastone ormai divenuto suo unico sostegno. Era finita: troppe volte aveva schivato la falce, ma stavolta era diverso.
Non vi era paura nel cuore valoroso del Conte, solo un’ infinita tristezza per non essere riuscito a proteggere ciò che più amava.
Sul punto più alto di quel fazzoletto di terra, Bernàrd posò delicatamente a terra la cesta che aveva sulle spalle e inginocchiandosi prese in braccio il corpicino morente del povero Sèb. Facendo appello alle ultime forze lo strinse forte a sé e alzò gli occhi al cielo, portando il suo ultimo pensiero all’amata Rose.
Ebbene, forse la Luce non aveva completamente abbandonato quelle terre, forse era solo nascosta, una piccola brace sotto una coltre di cenere.
Ognuno la pensi come crede, fatto sta che l’ultima cosa che videro il nobile San Traft e il piccolo Sèb fu una luce abbagliante. Mille e mille candide piume d’argento li avvolsero con tutto l’amore di una moglie e il calore di una madre, strappandoli per sempre dagli artigli dell’abisso.
Da allora nessuno sa più niente di loro: solo qualche esploratore o fortunoso viandante giura sulla propria vita di aver visto, mentre vagava disperso nella palude di Morkrut, una piccola cappella votiva. Qualcuno dice nella zona nord, chi verso il Kessig o dal confine con Stensia, ma tutti la descrivono misteriosamente intatta e non intaccata dai miasmi.
Raccontano che, quando ormai temevano il peggio, la videro ergersi su una piccola radura al di sopra delle acque fetide e dicono lì di aver trovato rifugio e salvezza. Si dice che sia stata Avacyn stessa ad erigerla e che tuttora ospiti i caritatevoli spiriti dei SanTraft.
Ora come allora sempre pronti ad aiutare i bisognosi: uno spiraglio di luce nell’oscurità, così come erano il sorriso della dolce Rose e il cuore grande di Bernàrd.
Piergiorgio Melidori
(nomi e luoghi del racconto sono stati ispirati al gioco Magic the Gathering)