Per la serie NONSOLOZOMBIE, un racconto erotico-vampiresco di DIANA J.STEWHEART:
NERO COME LA NOTTE, ROSSO COME IL SANGUE
(si consiglia la lettura ad un pubblico adulto)
Nero come la notte, rosso come il sangue. Era così che immaginavo il mio amante nei recessi più reconditi della mia mente e nelle profondità del mio corpo eccitato all’inverosimile. Immaginai di avere un amante vampiro dopo aver visto The Twilight Saga: nonostante avessi superato l’adolescenza da un pezzo, essere o anche solo credere di essere l’amante di un succhiasangue mi faceva tendere le membra come corde di violino, un desiderio inestinguibile. Passavo le mie notti a masturbarmi ed a pensare a lui; come sarebbe stato il tocco delle sue mani? Ed i suoi baci? Sarebbero stati freddi come il ghiaccio o roventi come il fuoco che possedeva il mio essere? E, finalmente, una notte arrivò. Capii di averlo evocato nei miei sogni e nei miei appassionati gemiti della mia disperata solitudine. Il mio corpo si preparò ad accoglierlo ed io avvertii i capezzoli rizzarsi, caldi e turgidi, come soldati sull’attenti. Le mie cosce si spalancarono ed io sentii chiaramente il suo membro, caldo e fremente, insinuarsi come un serpente sulle mie gambe tremanti fino a trovare la mia essenza, bagnata e palpitante che aspettava di chiudere le sue rosse labbra su di esso come in un bacio eterno. Quando entrò dentro di me, urlai e strappai le lenzuola sotto al mio corpo, tanto fu il piacere che mi procurò. Lo sentivo agitarsi nella mia vagina; viscido involucro che a malapena riusciva a contenere la sua bramosia. Quando ebbe finito di possedermi, un soffio di aria gelida mi raggelò ed io caddi profondamente addormentata, mentre il suo miele continuava a colare dalla mia intimità. Quando mi svegliai pensai di aver vissuto un sogno particolarmente coinvolgente, ma mi bastò dare un’occhiata al mio viso ancora stravolto dall’incredibile esperienza appena vissuta per rendermi conto che il mio Edward esisteva davvero; non faceva parte delle fantasie malate di una donna matura in preda ad una crisi adolescenziale… a scoppio ritardato! A quel punto temetti che lui non sarebbe più venuto. Forse non ero un’amante così eccezionale come credevo o non all’altezza di un Figlio della Notte. Mi sbagliai: venne a trovarmi la notte successiva e quella seguente e quell’altra ancora. Il mio sesso accoglieva il suo, come se fosse dotato di volontà propria. I nostri amplessi erano violenti ed il mio corpo si torceva come preda delle convulsioni ogniqualvolta arrivava l’orgasmo tanto atteso; esso era accompagnato dalle mie urla dato che non riuscivo a trattenermi: se lo avessi fatto sarei morta. Io avvertivo il suo pene, così grosso e così caldo introdursi in ogni anfratto dei miei genitali e della mia mente. Quando ci accoppiavamo, io vedevo delle cose. Erano dei ricordi, non miei ma suoi. C’era un castello illuminato che si stagliava minaccioso nella bruma che fendeva con le sue alte torri. All’interno vi erano giovani donne, completamente nude, adagiate sui letti ed anche sul pavimento. Tutte allargavano le gambe allorché una specie di pulviscolo si posava sopra di esse. Vedevo i loro volti contrarsi negli spasmi della concupiscenza e che ben presto si tramutavano in contorcimenti dovuti alla sofferenza e all’ agonia. I loro giovani volti sfiorivano fino a diventare dei teschi con la carne sfatta e pendente, mentre gli occhi schizzavano fuori dalle orbite e tutto il corpo prendeva fuoco e diveniva un mucchio di cenere nerastra. Quella visione mi sconvolse: anche a me sarebbe toccata la stessa sorte? Era palese che quelle ragazze erano morte a causa della loro passione per un non morto poiché loro erano umane… come me. Ebbi il terrore di finire arsa viva dalla mia passione. Ne valeva la pena? Adesso, come allora, a questa domanda rispondo con un sonoro si! Si! Non avevo mai conosciuto il desiderio carnale a così alti livelli; il tocco delle sue mani e delle sue labbra, rosse e languide, era immortale come il soffio del tempo. Egli mi offriva il calice della vita eterna ed io non dovevo fare altro che accostare le mie labbra e bere lo scarlatto liquido che mi avrebbe permesso di unirmi a lui per sempre! Ma non subito: prima avrei dovuto mostrargli di meritare cotanto onore. Io ero la sua Bella, lui il mio Edward e non volevo che il crepuscolo scendesse su di me e mi separasse dall’unico vero amore della mia vita. Sì! Sì: quella notte sarei andata a caccia, anche se il pensiero di dover uccidere mi ripugnava un po’. Ma cos’era una vita terrena; una vita che sarebbe comunque terminata presto o tardi e chissà dopo quante sofferenze. Ero un’infermiera perciò il dolore in tutte le sue salse era il mio pane quotidiano. Non credevo nell’esistenza di una vita dopo la morte: dopo aver esalato l’ultimo respiro non diventiamo che cibo per vermi che divorano le nostre carni e poi di noi non resta che delle ossa annerite e che si sfaldano al minimo contatto con l’aria. Ma ora, ora credevo nella vita che può essere perenne e passionale come i brividi lussuriosi che provavo quando mi assaliva l’ebbrezza donatami dalle mani così incredibilmente calde del mio sogno fatto uomo. Le sue carezze, le sue dita che si infilavano in ogni orifizio del mio corpo facendomi ansimare come una cagna in calore, ma cosa più importante del sesso era che io sentivo il suo amore. Lui mi amava; io non ero solo un pezzo di carne da possedere bensì una persona a cui voler bene. Tuttavia, il suo regno, il regno della Notte e dell’Immortalità, a me era precluso fintantoché avessi continuato ad essere una donna. Dovevo abbracciarlo, abbracciare il credo e far entrare la sua anima dannata dentro la mia. Il mio volto stava perdendo l’espressione allegra che ispirava simpatia alle persone che mi circondavano ed i miei occhi verdi, una volta sinceri e limpidi, stavano divenendo torbidi quasi che volessero rivelare al mondo il desiderio che mi consumava. I miei amici mi guardavano e scuotevano la testa; ormai quasi nessuno desiderava stare in mia compagnia. Credo stessero iniziando a temermi. Io mi resi conto di aver perso gran parte del buono che vi era nel mio carattere. Divenni aggressiva pronta a picchiare e lacerare la pelle di tutti coloro che osavano chiedermi cosa non andasse nella mia vita. Le mie unghie, prima così pudicamente corte, adesso erano libidinosamente lunghe ed appuntite. Quando il mio amante non c’era, mi procuravano delle abrasioni brucianti nelle parti intime allorché ero impegnata nelle mie pratiche solitarie. La grande mutazione in me stava già avvenendo; anche gli animali ne avevano sentore. I cani stavano alla larga, non prima di avermi ringhiato contro ed i gatti tentavano di sfoderare i loro artigli, ma avevano troppa paura perciò correvano a rintanarsi in qualche buco. Una notte decisi di fare una specie di battuta di caccia e mi avvicinai di soppiatto ad un gatto grasso e vecchio che sonnecchiava. Ho sempre amato gli animali, ma adesso io ero la cacciatrice e loro le mie prede. Esso tentò si sfuggirmi, ma io piantai le mie dita sottili e adunche fra le sue scapole e lo portai all’altezza della bocca che aprii. Gli morsi la giugulare con gl’incisivi. Subito il sangue, rosso e lucente, zampillò imbrattandomi il volto ed il petto. E bevvi. Bevvi quel sangue animale caldo e corposo; scese giù per la gola come un fiume impetuoso che mi corroborava le viscere. A mano a mano che lo scarlatto liquido diveniva tutt’uno con il mio corpo, sentii l’eccitazione mi faceva bagnare ed ebbi un orgasmo selvaggio che eruppe dalla mia gola con un urlo quasi disincarnato. In quella, mi ritrovai a casa, nel mio letto, completamente nuda e preda degli spasimi della concupiscenza giacché il mio amante stava sopra di me e mi cavalcava come un giumenta. Il mio stomaco, però, non ancora abituato a ricevere il sangue come nutrimento si ribellò ed io vomitai tutto quello che avevo ingurgitato. Il mio corpo spogliato grondò di sangue e lui iniziò a leccarlo, ansimando come un cane infoiato. Con i pollici iniziò a palpeggiarmi le mammelle, massaggiandole dal basso verso l’alto ed io le sentii diventare dure come marmo, mentre i capezzoli si ergevano turgidi e di un rosso rubino. Subito lui iniziò a succhiarne uno producendo un rumore stridente che io trovai davvero seducente. La sua lingua leccava ed assaporava i miei seni, si soffermava sull’ombelico e poi scivolava nella fessura fra le cosce che accoglieva quella freccia fredda e umida come una serata autunnale. Pochi minuti prima dell’alba, mostrò le zanne così incredibilmente affilate e baluginanti di una luce malvagia e foriera di vita sempiterna. Pensai che finalmente mi avrebbe vampirizzata, ammettendomi nel suo clan di immortali. Mi girai di lato per offrirgli meglio la mia giugulare, ma egli mi guardò con quelle sue pupille nere e penetranti e mi fece capire che dovevo compiere il sacrificio estremo. Solo allora anche io sarei diventata una Figlia della Notte. Lui non parlava mai e comunicavamo per via telepatica. E’ strano, lo so, ma era come se lui entrasse nella mia mente così come penetrava il mio corpo. Io sentivo una voce che assomigliava un brusio e riuscivo a capire cosa mi voleva dire ed a lui bastava guardarmi negli occhi per avere una risposta. Le prime luci dell’alba si insinuarono attraverso le persiane accostate; odiavo quel momento perché significava il distacco, anche se momentaneo, dal mio primo vero amore. Egli si scisse in mille puntolini luminosi, simili a pulviscolo e scomparve come se non fosse mai esistito. Ed io rimasi, distesa scompostamente a fissare il vuoto ed a programmare la mia prima vera notte di caccia. Ad un certo punto mi addormentai e quando mi risvegliai era già quasi giunto il crepuscolo. I raggi morenti di un sole malato stavano scomparendo oltre l’orizzonte per fare spazio alla notte. Oh, le dolci tenebre che ammantavano ogni cosa con mille sfumature di oscurità. Quella era la notte perfetta per dare il via alla mia transizione; la luna era coperta da un denso banco di nubi che promettevano pioggia, perciò l’oscurità era pressoché totale. Mi lavai con cura per togliere dal mio corpo ogni traccia di sangue e mi vestii come una puttana; indossai una minigonna quasi ascellare, una guépiere e… nient’altro. I miei seni prosperosi sgusciavano fuori ad ogni mio movimento: proprio quello che volevo. Mi diressi in una zona di Central Park frequentata dalle prostitute e rimasi in attesa. Non dovetti aspettare molto; un grassone, unto e viscido, fermò la sua utilitaria bianca e malconcia e mi fece segno di salire. Ancheggiai violentemente, in modo che lo scollo della guépiére cedesse sotto il peso del mio decollété. Gli occhi dell’uomo strabuzzarono ed io mi accorsi che il pene stava per saltargli fuori dai jeans sdruciti e macchiati di grasso. Emanava un odore si sudore e olio fritto, unito ad un debole afflato di vaniglia e arancia. Dedussi che fosse un pasticcere. Il suo viso, paonazzo e punteggiato da brufoli, era la cosa più disgustosa che avessi mai visto. E le mani, le sue mani, così grossolane e rudi, si infilarono sotto la mia gonna e cercarono di entrare nella mia vagina. Soffocai un conato di vomito-quel rifiuto umano mi faceva rivoltare lo stomaco-ma il pensiero che grazie a lui avrei potuto bere dallo stesso calice del mio amante, mi fece sopportare i suoi baci e la sua lingua puzzolente. Aspettai affinché il suo desiderio montasse fino a renderlo talmente eccitato da non accorgersi neppure se un hamburger volante gli precipitasse addosso, quindi spalancai la bocca ed affondai i denti in quel collo pingue ed accaldato; fu come mordere dello strutto disciolto. Ma continuai fino a trovare la giugulare. Lui si dibatteva ed urlava come un maiale terrorizzato dopo aver capito che la stessa mano dell’uomo che lo nutriva era anche la stessa che gli avrebbe procurato la morte per mezzo di un coltello affilato. Cercò di difendersi, allontanando la mia bocca dal suo corpo, con un pugno che io schivai ed anzi gli affondai le unghie taglienti come rasoi nell’occhio destro fino a cavarglielo; rimase conficcato nel mio dito medio, come una testa impalata. L’altro occhio, che stava divenendo vitreo, mi fissava attonito come per dire: ma come? Non volevi farti una scopata con me? Uno sprazzo di umanità mi colse impreparata allorché mi accorsi di star provando un po’ di pietà per quella vita che stavo spezzando. Una parte di me, quella ancora attaccata al mio lato terreno, mi consigliava di lasciar perdere, di scappare e chiamare i soccorsi e tentare di salvarlo. Ma l’altra, quella ormai corrotta dalla mia passione sfrenata e dalla mia bramosia di vita eterna, mi diceva, mi ordinava di continuare e finire quello che già avevo iniziato. Diedi retta a questa parte di me e ficcai gli artigli- chiamavo le mie unghie con l’aggettivo che più gli si addiceva- nello squarcio che avevo aperto con i denti non abbastanza forti per recidere le arterie di un uomo così grosso. Non ancora. Le mie mani sembravano delle scuri che fischiavano fendendo l’aria, mentre si abbassavano per concludere il lavoro iniziato dalla bocca. Io guardavo quelle armi mortali come se non fossero parti di me, ma fossi una spettatrice. Esse agivano da sole, comandate da una forza sovrannaturale. Fu solo quando esse liberarono la giugulare dalla pelle e dal grasso che mi riebbi da quello stato catatonico e la mia lingua saettò verso le labbra per umettarle. Vidi quella arteria pulsare e pompare il sangue e… e lanciai un urlo che sembrava un ruggito e mi lanciai su di essa con la bocca aperta. La lacerai e lasciai che quel liquido caldo mi sommergesse, poi mi accucciai accanto a quel cadavere e mi attaccai a quel collo taurino come un lattante si attacca al seno della madre, ed iniziai a succhiare. Bevvi in preda all’ebbrezza del potere ed alla consapevolezza di aver compiuto qualcosa di inimmaginabile per un’ordinaria donna della periferia di New York. Io, Pollyanna Mayer, ero appena diventata immortale! Come evocato dai miei pensieri, ecco apparire il mio amante che presto sarebbe diventato il mio sposo per l’eternità. Allo scoccare dell’alba, una nebbia biancastra e lattiginosa si materializzò davanti ai miei occhi ed io riconobbi il corpo di colui che aveva rapito la mia mente e la mia anima. Egli mi si accoccolò davanti ed i miei occhi neri si tuffarono nei suoi occhi, divenuti cerulei e con delle sfumature rossastre. Mi prese il viso fra le sue mani, così fredde e così sensuali ed aprì la bocca per darmi un ultimo bacio… un bacio che sarebbe rimasto nelle mie memorie da umana… anche se per poco tempo. Ecco, il momento tanto atteso stava per arrivare. Mi cinse la vita con delle braccia forti come l’acciaio e mi fece volare con lui. Sorvolai il fiume Hudson e la Statua della Libertà ed il Ponte di Brooklyn su cui svettava la bandiera degli Stati Uniti. Non li avrei visti mai più con i miei occhi, bensì con quelli di una Vampira, un essere maledetto e temuto. Ma il mio cuore non aspettava altro se non la Luce che diventa Tenebra e la Vita che rinasce dalla Morte…
DIANA J. STEWHEART