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DISTOPIC Z TALE, quando l’apocalisse zombie dilaga nelle trincee della seconda guerra mondiale
Leggi il fantastico racconto di Gecchi Ventura …


 

Penisola del Kuban, Territorio di Krasnodar, Caucaso, 1943

 

Job toje mathi![1], esclamò il soldato Kulienko sferrando un calcio al cadavere.

Il corpo del commissario politico Iliya Vatutin giaceva supino in una poltiglia di fango e sangue. Di intatto aveva solo una lente degli occhialini tondi e la Nagant ancora stretta nella mano, che però giaceva a diversi metri dal braccio.

“Continui a insistere sulla tua versione, soldato? L’omicidio di un ufficiale politico è una faccenda piuttosto seria, panjemajo tovarish?”[2]

“Compagno capitano, mi creda, non ha risposto alla parola d’ordine”

“E c’era bisogno di farlo a pezzi?”

“Non c’è stato verso… continuava a venire avanti, sembrava indemoniato”

“Idiota! Ormai per te non posso fare nulla” gli disse mentre due soldati lo prendevano in consegna per inviarlo nelle retrovie, dove lo attendeva la rapida assise di un Tribunale del Popolo che avrebbe regolato la questione definitivamente.

Il capitano offrì una sigaretta all’ufficiale medico: “Che ne pensi?”

“Non so che dire… con tutto il piombo che aveva in corpo non avrebbe potuto fare più di un paio di metri. Ci vorrebbe un’autopsia” affermò serio.

Il capitano scoppiò a ridere: “Un’autopsia? Lo sai che c’è una guerra mondiale in corso, vero?”. Detto questo chiamò due portaferiti. Si trattava pur sempre del cadavere di un commissario politico al quale bisognava assicurare degna sepoltura.

L’ufficiale medico fece spallucce e tirata l’ultima boccata, lanciò il mozzicone che andò a colpire la stella rossa del berretto ancora calzato su ciò che restava del cranio.

Do svidaniya, compagno commissario” sussurrò beffardo.

 

Nel bunker seminterrato incassato nel fianco di una trincea del tutto uguale a quelle della prima guerra mondiale, il telefonista sussultò stupefatto: “Herr Hauptmann[3], il sergente Steiner comunica che i russi si arrendono”

“Ma che cazzo dici. Passami il telefono… gli faccio passar io la voglia di scherzare a quel buffone. Pronto, Steiner, mi sente? Sono il capitano Stranski. Se continua con queste cazzate la deferisco immediatamente alla corte marziale!”, strepitò isterico nella cornetta.

“Qui è il colonnello Kirilienko, comandante del IV gruppo batterie di artiglieria campale aggregato alla 51^ divisione. Avrei bisogno immediatamente di conferire con il comandante in capo di questo settore” disse una voce baritonale in un tedesco più che passabile.

“Ah sì? Steiner, venga qui e preghi il suo dio che ci sia davvero un colonnello russo con lei” e poi, rivolgendosi al suo attendente, “questa è la volta buona che mi sbarazzo di quel bastardo”.

A convincerlo furono la sfilza di nastrini sulla divisa e, abbagliante come il sole, l’Ordine di Lenin, la più importante decorazione alla quale un militare sovietico potesse aspirare. Il capitano Stranski faticò a mettere a fuoco il resto della figura imponente dell’ufficiale russo. Al termine delle presentazioni di rito il colonnello propose senza mezzi termini una tregua e l’immediata costituzione di un gruppo di combattimento congiunto.

“Ma lei è impazzito… Steiner, che cazzo succede qui?”

“Il sergente Steiner comunica rispettosamente che il colonnello si è presentato alla testa delle sue truppe disarmato e sotto protezione di una bandiera bianca. C’è un’intera sezione di Katiusce in perfetto assetto di combattimento e un paio di compagnie di artiglieri, trecento uomini in tutto. Rifornimenti e vettovaglie al seguito. Voleva parlare con lei e non mi è sembrato educato rimandarlo indietro, signore” disse strafottente.

“E perché mai volete arrendervi, sant’iddio?” chiese Stranski al colonnello russo.

“Evidentemente non mi sono spiegato. Le sto proponendo di unire le sue forze sotto il mio comando perché se no ci fanno il culo”

“Sotto il suo comando? E chi dovrebbe farci il culo, se è lecito?”

“I russi”

“Dannazione, ma che sta succedendo qui? Lei è completamente uscito di senno!”

Il colonnello, comprensivo, fece cenno a una sedia: “Posso?”

Spiegò che erano in marcia da un paio di ore, anzi, più che di marcia si dovrebbe parlare di ritirata, confessò.

“Ritirata?” lo interruppe Stranski. “E vi ritirate verso il fronte?”

Il colonnello ignorò l’obiezione e continuò. Erano stati sopraffatti da una marea di dementi provenienti dalle retrovie che sembravano immuni alle pallottole e che sbranavano chiunque capitasse loro a tiro. L’equivalente di un paio di reggimenti, forse un’intera divisione. Forse anche tutto il Gruppo di Armata schierato in zona.

“Non c’è modo di fermarli, se non fracassandogli la testa” concluse serio.

Il capitano Stranski si mise le mani nei capelli sconcertato. Lo guardò perplesso e poi sbottò:

“Sbranavano?”

“Veri e propri atti di cannibalismo, di una ferocia inaudita, peraltro”

“Colonnello, lei sta abusando della mia pazienza. Non siamo mica nella fottuta Africa equatoriale… Dovrebbe mostrare un po’ più di rispetto!”.

“Ha ragione a non credermi. Mandi qualcuno a dare un’occhiata. Ma faccia in fretta. Sono lenti, ma non si fermano mai, nemmeno per tirare il fiato”.

“Informo il comando?” chiese servizievole il tenente Triebig.

“Non si azzardi, Triebig. Vuole farmi ridere dietro dallo Stato Maggiore al completo?”

Il capitano spedì in territorio nemico le due sezioni di esploratori a sua disposizione e promise al colonnello di occuparsi personalmente della sua impiccagione in caso non ci fosse stato riscontro.

“È nel suo pieno diritto, capitano. Un’ultima preghiera…”

“Sentiamo…”

“Consenta al mio reparto di attraversare la linea e schierare le batterie. Con le mie Katiusce e le sue due sezioni di mortai pesanti si potrebbero fermare quei bastardi prima che giungano in prossimità delle trincee. Le do la mia parola di ufficiale che non è una trappola”

“E che ne sa lei dei miei mortai, colonnello?” replicò il capitano, ma senza troppa convinzione. Con un cenno chiamò il suo aiutante.

“Triebig, faccia passare i russi, ma prima disarmateli. Va bene per lei, colonnello?”

“È ragionevole, al suo posto avrei fatto altrettanto. Tenente Komarov, la prego, accompagni il tenente Triebig per le disposizioni del caso”.

“Ma davvero intende aprire il fuoco sui suoi compatrioti, colonnello?” chiese versandogli da bere.

“Non sono più miei compatrioti” rispose ormai indifferente a tutto. “Lei mi faccia avere le coordinate esatte e le dimostro che contro le mie Katiusce nemmeno Satana nella più profonda delle bolge può dirsi al sicuro. Li rispediremo all’inferno una volta per tutte”.

“Staremo a vedere” disse scettico Stranski.

 

“Steiner a Comando, Steiner a Comando”, gracchiò la radio.

Stranski afferrò il microfono: “Allora Steiner, cosa vede?”

“Uomini, signore… sembrano un reggimento di fila dei tempi di Waterloo.  Sono lenti, impacciati nei movimenti… Barcollano, ma sono migliaia. Molti sono armati, ma trascinano i fucili piuttosto che imbracciarli… non sembrano preoccupati di essere allo scoperto… è tutto così irreale, non so… se posso esprimere il mio parere non mi sembrano così pericolosi…”

“Lasci perdere i suoi commenti, Steiner, a noi basta che siano russi. Faccia il punto per l’artiglieria e vediamo se il nostro colonnello intende davvero aprire il fuoco”

Jawohl, Herr Hauptmann: foglio 7, griglia B-12, coordinate…”

 

Le venti batterie semoventi, abilmente dirette dal colonnello russo, riversarono trecentoventi razzi su quella massa compatta. Quasi all’unisono si abbatterono con precisione millimetrica sulla mandria di uomini in divisa, triturandoli come se fossero in un frullatore. Al diradarsi della nuvola di polvere e detriti, Steiner fu finalmente in grado di fare rapporto:

“Tiro su bersaglio. Ripeto, tiro su bersaglio. Fuoco a volontà”

Più di mezz’ora impiegarono le batterie ad esaurire l’intera dotazione di razzi, ma non fu sufficiente.

A duemilacinquecento metri dalla postazione del gruppo di combattimento, i mortai da 81 entrarono in azione. Ma non fu sufficiente.

A quattrocento metri i volti di Stranski e Kirilienko si fecero via via più contratti. Le MG 42 iniziarono a balbettare mentre si provvedeva a riarmare i russi. Accompagnate dal sordo ticchettio delle mitragliatrici, le armi individuali, dapprima incerte come all’inizio di una grandinata, poi sempre più insistenti, presero a scrosciare con veemenza picchiettando rabbiose su quegli automi. Le mine antiuomo, i reticolati e i cavalli di Frisia della terra di nessuno arginarono per un istante l’orda, che sembrava invadere ogni spazio vuoto. Ma non fu sufficiente.

Come una massa liquida, densa e compatta, l’orrore si riversò nelle trincee colmandole di morte.

Quel giorno terminò ufficialmente la seconda guerra mondiale, ma non ci fu nemmeno il tempo per festeggiare. Ne iniziava un’altra ben più cruenta.

Quella per la sopravvivenza della razza umana.

 

 

Gecchi Ventura


[1] Letteralmente “vai a fottere tua madre”

[2] Capisci compagno?

[3] Signor capitano


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