per la serie NONSOLOZOMBIE, un racconto allucinante e grondante sangue di: DIANA JENNIFER LABATE
C’è qualcosa dietro di me, qualcosa che mi alita sulle orecchie, il suo respiro fumigante simile a quello di un antico drago. Lo sento; avverto il suo respiro fetido nelle giornate assolate e nelle buie notti senza luna. La sua presenza malevola è diventata una costante nella mia vita poco dopo essermi trasferita qui a Dunwich. Pensavo che, con il buon lavoro trovato nella libreria locale, avrei potuto ricominciare daccapo… e ci sarei riuscita se quel maledetto volume non mi fosse capitato fra le mani. Stupida! Stupida! Come ho potuto cadere in quel tranello infernale? Cosa mi è passato per la testa quella notte? Sarebbe stato meglio se mi fossi concessa a qualche vogliosa conoscenza occasionale, piuttosto che mettermi ad intonare quei canti blasfemi. Ma il richiamo esercitato su di me dall’Occultismo è troppo forte ed irresistibile, per questo quando ho letto il titolo non ho resistito. Era scritto in rosse lettere gotiche che spiccavano come gocce di sangue su quello sfondo nero come la notte: De Potentia Sanguiniis- Il Potere del Sangue. Il timbro sulla mia copia era della Miskatonic University di Arkham, luogo che fu teatro di alcuni efferati omicidi… ma non parlerò di questo adesso. Adesso è tempo di mettere in guardia le possibili vittime di quel tomo empio che va a caccia di gente fiduciosa come me per riprendere vita.
Sì, é proprio così: quel libro non è solo un ammasso di pagine ingiallite dell’inesorabile passare del tempo, che in quel caso si può quantificare in ere, bensì una cosa viva che si nutre della nostra sete di conoscenza e bramosia di potere. Vista la mia spropositata ambizione e feroce voglia di arrivare sempre prima, avrà sicuramente fatto indigestione non appena l’ho preso fra le mani. Le mie mani… ebbero un fremito quando ne sfogliarono le pagine, che emanavano un forte e penetrante odore di ozono, simile a quello che permea l’aria prima di un furioso temporale. Tutti gli incantesimi erano stati stilati con un inchiostro dall’incredibile sfumatura scarlatta, che non si era deteriorata nonostante il passare del tempo. Colui o colei che lo aveva scritto doveva essere un’esteta, vista la grande cura con cui aveva inciso gli empi ritratti delle blasfeme creature di cui parlava il volume. Il primo capitolo era intitolato L’Abisso e descriveva un luogo noto come R’lyeh, nel quale giacevano in stato di dormienza gli Antichi Dei che vivevano e comandavano il nostro Pianeta tantissimi anni fa. In basso, vi era un incantesimo scritto in un guazzabuglio indecifrabile di aste e lineette simili alla lingua araba. Accanto ad esso, lo scrittore si era premurato di fornire una attendibile traduzione in latino che mi rifiutai di leggere, nonostante la mia ottima conoscenza della lingua, in un primo momento. Scorsi alla svelta le prime cinquanta pagine e mi fermai al capitolo 8, che si intitolava Cuore d’Ebano e ritraeva un essere mostruoso, nero come la notte, e provvisto di una moltitudine di tentacoli con i quali stritolava dei poveri infelici. Anche questa miniatura era davvero minuziosa e mi sembrò quasi di udire le urla di quei malcapitati, i cui volti erano contratti dalla paura e dalle indicibili sofferenze a cui quel mostro li sottoponeva: uno di essi gridava talmente tanto da essersi slogato le mascelle, mentre gli occhi gli fuoriuscivano dalle orbite e scivolavano lungo le guance terree, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue.
Quell’illustrazione mi fece rivoltare lo stomaco e mi convinse a chiudere il tomo con uno schiocco secco. Lo gettai sotto il letto e mi preparai un bagno caldissimo e profumato; il contatto con quella carta ruvida e arrossata mi faceva sentire sporca e quasi indegna di indossare la camicia da notte che la mia povera mamma mi aveva cucito. Rimasi in acqua finché non diventò fredda come la paura che iniziai a provare all’improvviso. Uscii in fretta dalla vasca e mi avvolsi in un lungo e caldo accappatoio prima di accoccolarmi a letto, cercando il sonno. Ma la mia mente non voleva saperne di chiudere i canali con la realtà e mi costrinse a pensare a ciò che avevo appena letto. La parte razionale di me, quella che mi evitava di passare come una squinternata davanti alla gente, mi esortava a smetterla con queste “baggianate occulte”, come mio padre definiva tutto ciò che aveva a che fare con la Magia ed i suoi annessi e connessi. Ma l’altro io, quello indissolubilmente legato al mistero ed alle pratiche magiche, quasi mi imponeva di continuare la lettura e magari provare a declamare qualcuno di quei versi terribili ed affascinanti al tempo stesso.
Una volta lessi in un libro di filosofia che queste due metà del nostro IO, così diametralmente opposte, assomigliano a delle dune di platino: magari abbiamo l’impressione che si spostino, come quelle che abitano i deserti, ma non è così dato che la loro materia non è la leggera sabbia, bensì il metallo. Esse simboleggiano il nostro fantomatico mutare che il più delle volte non è foriero di alcun significativo cambiamento, ma solo della nostra statica immutabilità. Non nascondo che impiegai un casino di tempo per decifrare quel pensiero così ostico, ma adesso, braccata nella mia stessa anima da una creatura empia che vorrebbe nutrire di coloro che albergano nella mia anima, riesco a capirne il senso. Quando sono nata, dato che non avrebbero potuto avere altri bambini, i miei genitori mi hanno chiamata con i nomi di entrambe le loro madri: Emily Jane. Io credo che quando chiamiamo un bambino con il nome di una persona che amiamo, inevitabilmente gli trasmettiamo anche qualcosa di quell’individuo. Qualcosa che non ha nulla a che fare con il DNA e altre logiche teorie genetiche. Questo qualcosa ha a che fare con una sfera trascendentale e che non si può spiegare ad un interlocutore scettico e con la mente chiusa alle ipotesi che contemplano la vita in un’altra dimensione. Io credo di avere dentro di me entrambe le donne che portavano i miei nomi di battesimo e che mi sussurrano come devo approcciarmi alla vita e come affrontare ciò che mi sta capitando. Esse sono le mie dune di platino e devo fare in modo di spostarle via se voglio mantenere un minimo di sanità mentale. Alcune volte sento di non essere sola, anche se non vi è anima viva nel raggio di un chilometro; avverto sempre dei respiri dietro di me oppure sento delle mani invisibili che si poggiano sulla gola con l’intenzione di stringere e stritolare. Mi giro e non c’è nessuno… nessuno di visibile.
Io so che tutto è iniziato nel momento stesso in cui ho iniziato a leggere a voce alta alcuni versi di un incantesimo che serviva ad accrescere il nostro potenziale. Nella mia infinita idiozia non ho pensato che l’unica cosa che avrebbe avuto un certo potenziamento sarebbe stato solo il potere di quelle malevole creature, le quali avrebbero trovato la forza di sfuggire al loro esilio per portare le tenebre nelle nostre vite, per sedersi sul trono dei potenti ed assoggettarci e renderci schiavi come eravamo un tempo, quando le genti si genuflettevano al loro cospetto. Quel libro era come un Vaso di Pandora che aspettava solo una curiosa, sciocca donna lo aprisse per liberare l’Oscurità nel nostro piccolo mondo di luce. C’era una creatura, esattamente a pagina 66, raffigurata come un essere umanoide, alto e ben piazzato, coperto dalla testa ai piedi da un lungo mantello nero, con cappuccio che non lasciava intravedere nulla del volto se non due punti rossi e luminosi che aveva al posto degli occhi. Essa era conosciuta, fin dall’Antichità, come Il Cacciatore ed ilsuo compito era di scovare le persone più adatte ad ospitare qualcuno dei Grandi Antichi nel loro corpo, in modo che l’involucro di carne ed ossa fosse una specie di rifugio umano per quegli spiriti impuri. I requisiti necessari per diventare “incubatrici” di quei demoni erano solo due: ambizione e stoltezza. Io, purtroppo, li avevo entrambi ed in dosi abbondanti! Mi accorsi che il mio corpo cambiava, la mia psiche cambiava subito dopo aver declamato uno di quegli orrendi anatemi. Sembrava una poesiola per bambini, innocua. Ma non lo era; in quelle frasi in rima si nascondeva l’incantesimo più potente di sempre, quello che avrebbe risvegliato Nyarlathotep dal suo sonno millenario. Nonostante siano passati anni, quelle parole mi rimbombano in testa come pesanti colpi di martello su di un ceppo di legno ed ognuna di esse porta con se gravosi respiri che mi fanno scoppiare le orecchie.
“A mezzanotte l’Uomo Nero
bussa da sotto il letto. Attento! Metti i piedi
sotto le coperte; scappa sul tetto.
L’Uomo Nero ti ha puntato con il suo dito ossuto
non puoi più chiedere aiuto.
Rossi occhi ti scrutano nelle ombre
Gelidi respiri ti fanno fermare il cuore.
Ma che facile preda per Il Cacciatore!”
Quella notte stessa ricevetti la visita di una misteriosa figura incappucciata. Sembrava mi osservasse dall’interno dello specchio prospiciente il mio letto con baldacchino. Non fece alcun rumore; a svegliarmi furono i suoi occhi, così rossi e fulgidi. Essi emanavano dei bagliori così intensi da perforare l’intensa coltre di oscurità che permeava la mia stanza. Era lui: il Cacciatore mi aveva trovata. Non ebbi nemmeno la forza di fuggire: quegli occhi mi inchiodavano al materasso. L’infernale figura scuoteva la testa ed io sentivo una voce metallica che mi entrava nel cervello e si insinuava in ogni fibra del mio corpo, raggelandomi il sangue nelle vene per il terrore.
“Ti ho trovata, finalmente! Ti ho cercata per tanto, troppo tempo; quasi credevo che non esistessi. Ma tu hai aperto la porta ed io sono entrato. No, non sono prigioniero di questo specchio: per me non esistono catene né gabbie. Io viaggio attraverso le dimensioni e lo faccio da infinite ere e adesso credo che mi riposerò… nel tuo mondo! Verrò a trovarti ogni sera; diventeremo amici, vedrai! E prima di ripartire, ti pianterò questo nel cuore ( mi mostrò un pugnale dalla lama trasparente, il cui interno brulicava di creature striscianti)! Rapidamente come era apparso, scomparve.
Il giorno seguente pensai di avere un incubo particolarmente realistico e me ne stavo convincendo finché non passai davanti allo specchio e mi accorsi che sulla sua superficie, prima impeccabile, stazionavano due macchie rossastre simili a degli occhi. Non era stato un brutto sogno; il Cacciatore era reale e per farmi capire che non l’avevo immaginato, mi aveva lasciato la dimostrazione tangibile della sua presenza , che divenne una costante della mia vita. Anche se non si faceva vedere per giorni, io lo sentivo. Esso era nella brezza tiepida che entrava da una finestra socchiusa; nella luce della luna che filtrava dalle imposte. Egli era nei miei occhi che riflettevano la sua malvagità, perché era dentro di me. Fu più o meno in quel periodo che iniziarono gli omicidi, efferati e irrisolti. Non aveva schemi né orari: colpiva in pieno giorno e anche a notte fonda ed ogni volta usava metodi diversi per finire le sue vittime che erano una tipologia variegata. Uccideva sia uomini che donne, giovani e vecchi. Io lo so perché ero il suo strumento di morte. Lui mi costringeva ad adescare giovani affascinanti, o avvicinare timide adolescenti con la scusa di una sigaretta ed altri pretesti banali. In quei momenti, sentivo il mio corpo vibrare di odio per ogni forma vivente esistente sulla terra e provavo una forza sovrumana che mi permetteva di uccidere con facilità.
Ricordo come fosse ieri la mia/sua prima vittima. Era un adolescente brufoloso e secchione, il tipico nerd verginello ed alla ricerca di qualcosa di veramente stimolante. Lo adescai in una biblioteca poco distante da casa mia. Il Cacciatore mi aveva detto come fare; lui albergava nella mia testa e comandava il mio corpo ed i miei pensieri. Era un’estensione della mia personalità, una specie di gemello partorito da un mondo insano e che aveva scelto me come madre putativa. Il ragazzo stava cercando un libro nel reparto di fantasy: credo fosse appassionato de Il Trono di Spade ed anche io mi finsi una grande fan della saga. Iniziammo a parlare dei suoi personaggi preferiti e quando capii che era totalmente assorbito dai discorsi che facevo su Daenerys Targaryen, gli dissi che in macchina avevo una t-shirt autografata da George R.R. Martin e dal resto del cast. Vidi il suo viso diventare porpora dall’eccitazione, mentre gli occhi gli cascavano fuori dalle orbite. Mi seguì come un cagnolino, ansioso di vedere quella meraviglia. Ma non furono gli autografi a catturare i suoi occhi, bensì i tentacoli uncinati che balzarono fuori dalla mia bocca come tanti giocattoli a molla. Essi si avvinghiarono al suo corpo ed iniziarono a stritolarlo come anaconde; udii lo scricchiolio delle sue ossa che si spezzavano, mentre il sangue fuorusciva da ogni orifizio. Gli occhi, quegli occhi spalancati dal terrore e dall’incredulità, stavano annegando nei miei e, pur se una buona parte della mia coscienza ormai apparteneva al regno delle ombre, provai un senso di afflizione e di pietà per quel giovane la cui unica colpa era quella di aver creduto alle parole gentili di una giovane donna che era un burattino nelle mani del Cacciatore. Sono passate diverse settimane da quella notte maledetta e lui è sempre qui e non è più solo. Vedo diversi occhi, alcuni rossi alcuni gialli, affacciarsi da quello specchio. Ah, immagino già il commento che frulla nelle vostre testoline da spettatori saccenti: perchè non hai rotto lo specchio? Si vede che ti piacciono le visite notturne di quei mostri…
Mi dispiace demolire le vostre certezze, ma ho tentato varie volte di distruggerlo senza mai riuscirci. L’ho preso a martellate, ma anche dopo averlo ridotto in mille pezzi, si è ricomposto tornando come prima. E dal suo interno è sbucata una mano possente e ricoperta da una sostanza gelatinosa che mi ha afferrata per il collo, attaccando il mio viso alla superficie dello specchio e fu allora che i miei occhi quasi vollero uscire dalle orbite per non essere costretti a guardare quel mondo sommerso, il regno dei Grandi Antichi: R’lyeh. Era una terra oscura dominata da distese melmose e limacciose, sulla cui superficie deambulavano orridi mostri dalle fattezze vagamente umane che guardavano verso di me. All’orizzonte, vidi il profilo di un palazzo enorme e nero come l’ebano che si stagliava contro il cielo scuro e punteggiato da costellazioni mai viste, che trasudavano gocce di un liquido scuro che avvelenava ogni cosa. Non c’è vita su quella terra maledetta da tutti: solo morte e desolazione. E la stessa cosa avverrà sul nostro pianeta se quegli dèi dovessero prenderne possesso. Dovevo fare qualcosa: era colpa mia se tutto questo sarebbe successo e dovevo rimediare in qualche modo.
Sfortunatamente, non sapevo come fare per impedire una tale ecatombe ma ragionandoci su capii che come lo specchio era la porta attraverso cui passavano le anime dannate dalla loro alla nostra dimensione, gli occhi erano la porta che li conduceva nella nostra anima. Forse, sarei riuscita a ricacciare il Cacciatore nel suo mondo. Avrei solo dovuto trovare il coraggio di cavarmi gli occhi. A detta di tutti, perfino dei miei nemici, avevo degli occhi stupendi: grandi e verdi come il mare. Ed anche io lo pensavo, ma naturalmente non avrei perso solo il mio gradevole pregio estetico bensì la cosa più bella che Dio ci avesse donato: la vista. Avrei dovuto dire addio alla sfavillante luce del sole; al verde delle piante; all’azzurro del cielo per vivere nel mio personale regno di buio e ombre.
Una voce dentro di me mi disse di desistere e che ormai il Vaso di Pandora era stato aperto; anche se mi fossi accecata non era sicuro che il Cacciatore ed i suoi padroni sarebbero stati ricacciati nel loro abisso infernale.
Mi voltai verso lo specchio come a cercare coraggio e vidi quei maledetti puntolini rossi e fulgidi che adesso si stavano moltiplicando e mi fissavano per ipnotizzarmi ed entrare dentro di me. Non ebbi bisogno di altre conferme: la mia teoria era azzeccata. Affinché il mio sacrificio non fosse vano, dovevo estirparmi i bulbi oculari con la stessa materia di quello specchio, così afferrai una pesante mazza di ferro e lo colpii con tutta la forza che avevo. Disponevo di pochi minuti prima che i cocci si ricomponessero di nuovo. Ghermii due pezzi di vetro appuntiti e li affondai con forza sulle mie palpebre chiuse. Il dolore fu lancinante e temetti che il cervello andasse in frantumi, ma non morii. Le mie urla avevano attirato i vicini di casa, che sfondarono la porta e mi trovarono con dei vetri in mano e due ferite sanguinanti al posto degli occhi. Sono passati due mesi da allora e non faccio che urlare e sbattere contro le pareti della mia cella imbottita. I medici che mi “nutrono” di psicofarmaci dicono che soffro di un disturbo mentale chiamato schizofrenia paranoide che mi provoca allucinazioni e deliri. Nessuno mi crede… e come potrebbero? Chi mai può credere una donna che dice di vedere ogni cosa quando ha le orbite vuote come un pozzo prosciugato? Vorrei davvero essere matta per non avere le mie certezze e farmi cullare dall’oblio; ma non è possibile: io non sono schizofrenica e ragiono benissimo. E ci vedo pure abbastanza bene perché nonostante i miei occhi siano adesso nello stomaco dei ratti e nonostante le bende nere che coprono le ripugnanti piaghe che deturpano il mio volto, un tempo bellissimo, io vedo il presente ed il futuro. Un futuro non troppo lontano in cui il cielo ed il sole cadranno e verranno inghiottiti dalla nuda terra assetata di vita. Il buio regnerà sul nostro pianeta che verrà sommerso dalle acque del R’lyeh e che diventeranno il cimitero di tutti quelli che si ribelleranno ai Grandi Antichi i quali li daranno in pasto ai loro cani tricefali e con le lingue biforcute che li smembreranno e giocheranno con le loro teste. Questo accadrà sulla Terra e lo posso affermare con cognizione di causa dato che io sono il mezzo attraverso il quale essi ci soggiogheranno. Io tutto so e tutto vedo perchè ho gli occhi di Nyarlathotep il Terribile…
Diana J. Stewheart