EditorialeRacconti

I colpi dei cannoni automatici degli IFV si susseguirono per tutta la notte, illuminando il cielo della vallata in cui eravamo, fino alla radura, dove per ore cercammo di bloccare l’avanzata nemica.

Ormai non restava che ripristinare le fortificazioni abbattute e raccogliere i feriti e i morti…  a centinaia.

Su ordine del comandante, il giorno seguente ci alzammo all’alba e ci avviammo a piedi in perlustrazione nell’entroterra, nella vana speranza di trovare sopravvissuti, fuggiti e rintanatisi sulle colline a sud.

Camminammo per ore sotto una tormenta di neve, che non ci dava tregua ormai da qualche giorno, passando di villaggio in villaggio tra le macerie di luoghi dove un tempo il ciarlare del mercato rionale animava i paesi.

Quei luoghi mi furono cari, regalandomi i migliori anni spensierati della mia fanciullezza e adolescenza, selvaggia, lasciandomi ricordi che si persero nel tempo, nello spazio e nella follia di un mondo in declino.

 

Perlustrammo la vasta area che da *** s’inerpica sulle colline di *** e, in mezzo alle abbandonate coltivazioni di ulivi e limoni, subimmo la prima feroce offensiva.

Serrammo i ranghi a difesa e colpimmo con tutto il fuoco a nostra disposizione ma il nostro gruppo fu seriamente danneggiato e si divise, disperdendosi nelle campagne limitrofe quando ormai il giorno volgeva al termine.

Insieme ad un manipolo di sopravvissuti fuggimmo ad est e solo sopraggiungendo su ciò che restava di un paese e della strada provinciale che lo attraversa, mi accorsi di conoscere quei luoghi. Il mio gruppo era sparito. Ero rimasto solo, come sempre.

Valutando l’impossibilità di rientrare alla base, decisi di raggiungere più a nord la Collina degli Ulivi, nella speranza che ne fosse rimasta traccia, e presidiare la zona.

Ripetute raffiche di mitra esplosero da qualche parte, mi gettai a terra. La ferita al fianco si fece sentire lancinante e vivida ma imbracciai il fucile per inquadrare il punto da cui provenivano gli spari. Mi tiravano da una specie di pendio.

Da quella zona, percorrendo circa tre chilometri si arrivava alla periferia del paese, in cui si scorgevano diverse abitazioni, tra le quali spiccava una casa maestosa, circondata da un giardino e da una balconata. All’ultimo piano c’era una terrazza, e per finire s’intravvedevano una mansarda e il comignolo di un camino.

La fuga fu concitata. La distanza infinita e la neve abbondante e ovattata mi rallentava. La mia profonda ferita mi fece sputare sangue e perdere i sensi più volte, e più volte mi ritrovai a lottare contro il tempo: la vista era annebbiata dalla febbre ma quando la vidi, la riconobbi. Quella era casa mia.

La villa era da decenni sola e abbandonata; e a me sarebbe piaciuto continuare a vivere lì o lì spararmi, affinché il mio spirito vi finisse e risiedesse per sempre, là dov’era comparso e cresciuto. Opzione impossibile e lo sapevo. L’unica probabilità di accedervi sarebbe stata penetrarvi di nascosto, celato da quell’oscurità che la sera incombente mi donava. Scavalcai il guardrail della strada maestra e mi buttai in una piccola scarpata che conoscevo alla perfezione, acquattandomi come un serpente tra arbusti, fogliame e neve, aspettando il totale buio della notte per ripartire verso “casa”.

Mi addormentai per qualche ora come una serpe in letargo, cedendo velocemente a quel riposo che solo un essere stremato e ferito sa cosa possa essere. Al risveglio decisi di percorrere con calma e lentamente gran parte dell’ultimo tratto “al passo del leopardo” tra il guardrail e il muro di contenimento che dalla piccola scarpata, situata al bivio che porta alla città ***, arriva sino al mio paese. Di tanto in tanto qualche auto percorreva il silenzio di quella strada gelata, oscura, anche se a tratti illuminata da lampioni che una volta non c’erano, e dalle luci delle nuove villette costruite ai margini della carreggiata. Il pericolo di quella strada era di essere visto da qualcuno, ma a quell’ora e con quel sistema di avanzata lenta ma sicura non avrei avuto problemi. E non ne ebbi.

Giunsi a circa cento metri dal mio obiettivo. Mi fermai e la vidi. Essa era bella, silenziosa, statuaria, e proprio in questo momento ricordo che la trovai monumentale. Giaceva lì stanca e abbandonata, memore di un passato gioioso e splendente, quando tutte le sue porte e finestre erano aperte alla vita, quando le luci delle stanze trasmettevano all’esterno il suo spirito. Un cazzo di magone mi attraversò le membra, ma mi ripresi subito con la solita rabbia del mio essere irascibile, che mi irrigidì e scosse nervosamente.

Di certo non potevo entrare dalla porta principale che dava sulla via, e in ogni caso non avevo chiavi o altri mezzi per potervi accedere come un proprietario normale. Io ero in esilio da quasi trent’anni. Ma sapevo ugualmente come penetrarvi, cioè furtivamente e di soppiatto.

Da posizione prona tirai il ginocchio sinistro lateralmente verso il fianco, spinsi con le mani il terreno e mi alzai scattando in una corsa forsennata, raggiungendo con tutte le mie forze scatenate allo stremo una scalinata ripida e oscura che rasentava la casa a sinistra. Da lì si arrivava alla sommità di un declivio ricco di alberi, che finiva abbasso verso il giardino. Ormai ero al sicuro. Lì non abitava nessuno. Al massimo avrei potuto incontrare qualche coppietta ad amoreggiare, ma in quella stagione era impossibile. Tirai il fiato, e tra il buio delle fronde percorsi gli ultimi metri che mi portarono alla rete protettiva che tanti anni addietro avevo montato con mio padre. Era alta due metri, ma io nella mia natura esagerata l’avevo anche dotata di filo spinato. Me ne ricordai quando mi graffiai una parte del petto. Ma ormai ero dentro il mio terreno.

I pini erano diventati maledettamente enormi, e anche gli alberi da frutta nonostante l’incuria erano sproporzionati. Sembrava una foresta. Non potevo accendere la torcia, ma un pezzo di luna sterile mi mostrò la tristezza di un giardino che non pareva più bellissimo, ma aveva le sembianze di un camposanto. E probabilmente lo era.

Non ha importanza descrivere come entrai, ma entrai, perché quella fu terra mia.

Il garage era enorme, come lo volle mio nonno che riparava le mietitrebbiatrici. Accesi la torcia e pian piano mi si palesarono i vecchi oggetti accumulati negli anni, soprattutto utensìli e chiavi da meccanico. E sul bancone la vecchia morsa arrugginita dai decenni di inoperosità.

Mi appoggiai alla porta interna del garage, posai il fucile e mi accesi una Marlboro. Allora fumavo sigarette (la pipa fu una scoperta successiva). Col culo a terra mi rilassai a perquisire con la pila elettrica tutti gli angoli di quel parallelepipedo, finché non intravidi il vecchio armadio di abete, nel quale mia madre aveva relegato tutti i miei ricordi di un passato nefasto, quasi a seppellirmi per sempre in quella cassa oblunga. Lo aprii. Nonostante l’umidità, la polvere, l’abbandono, e questa merda di tempo infinito, le mie reliquie erano ancora vive. Non potevo portare tutto con me. Scelsi solo due “oggetti stranieri”, di cui uno poi lo regalai, li misi nello zaino e andai nell’androne della scala principale. Da lì nello studio che fu di mio padre. La biblioteca era piena di libri impolverati, e la puzza del chiuso e dell’umidità e la tristezza di quel luogo mi forzarono a salire ai piani superiori, sperando che fossero più curati (da chi?) e più puliti.

 

Fuori da qualche parte c’era una guerra, dappertutto un’ecatombe, in sintesi un’apocalisse. Ma io ormai ero giunto nelle retrovie nemiche e da lì, avamposto della fine, non sarei più potuto tornare indietro (poi invece tornai). Perquisii lentamente tutte le stanze di quella maledetta e sfortunata casa. La mia stanza era vuota e desolata, a tratti spuntavano alla rinfusa solo pochi oggetti, spariti da ogni traccia della mia memoria, e ora comparivano a tradimento a rattristarmi; tra questi un vecchio vaso in terracotta in cui da bambino pisciavo di notte avendo paura di alzarmi da solo al buio per non andare verso il bagno. Ripercorsi a ritroso i corridoi e salii al piano superiore. Là mi aspettava la parte veramente vissuta della casa, ossia la terrazza, la cucina, e la mansarda. Spesso tutto ciò che ritrovi dopo anni causa felicità. A me causò dolore. Mi affacciai dalla verandina della cucina verso il giardino. Mi accesi un’altra sigaretta e noncurante della fiammella che di notte mi avrebbe reso visibile e bersaglio a chilometri di distanza, mi appoggiai al parapetto. Imbracciai il fucile e cominciai a prendere la mira verso il nulla e l’oscurità. Avrei sparato a qualsiasi rumore.

La notte passò in fretta, molto più in fretta di come avrei sperato, e il sole cominciò a illuminare quel mondo, quei fiori, quegli alberi che in quel modo non vedevo da tempo e non avrei più rivisto. La neve magnificava il paesaggio in modo candido e inusuale. Tutto mi apparve bello e vivo come non lo era da decenni.

Sulla strada vidi qualcuno e fui visto. Velocemente una piccola folla si radunò e mi guardò. Puntai il fucile verso quelle teste e dopo un attimo di esitazione dissi: “boom”. Buttai l’arma giù nel giardino, scavalcai il parapetto. Non era più notte, non avevo più artigli, ero giunto a destinazione. Mi buttai a volo d’angelo per atterrare morto nell’aiuola di pietre rosa del giardino, vicino la casetta del mio cane pastore belga Jack, ormai ridotta a un groviglio di spine. Il mio corpo e l’anima non si spensero subito. Ebbero il tempo di percepire che ormai ero felice di giacere dove ero sempre stato.

 

Michela Iucchi
Hans von Oberhausen-Valdez

 


 

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