Aspettai. In qualche modo sapevo che Giacomo sarebbe passato di lì, quel giorno. Mi sedetti un po’ in disparte, appoggiato a un albero dove la strada cominciava a restringersi. Non si vedevano molte altre persone in quella strada, non quando la caccia non era ancora cominciata e le more non avevano raggiunto la maturazione. Quasi nessuno dei pochi altri ragazzi del paese andava a quella pozza del fiume; ce n’era un’altra più in basso, più larga e raggiungibile più velocemente, ma a me era sempre piaciuta di più la mia. La natura intorno era più selvaggia, e a volte se rimanevamo silenziosi si vedevano anche degli animali selvatici fare capolino da qualche parte. Poi non so, ho sempre amato il silenzio più della confusione, preferivo la compagnia del solo Giacomo ai gruppi più numerosi.
– Che fai, mi aspettavi? – La sua voce proveniente dalla strada mi fece sobbalzare mentre ero distratto a pensare a dove potevamo cominciare le nostre ricerche.
-Sapevo che saresti passato di qui.
– E come facevi a saperlo?
– In paese tornano i poliziotti, e tu saresti stato di certo nervoso a rimanere vicino a loro.
– Potevo andarmene a giocare a pallone con gli altri.
– No, ti conosco, tu hai avuto la mia stessa idea. Vuoi andare a cercare Amina nel bosco.
– Sì, è vero. – Abbassò la testa e diede un calcio a un sasso. – Ci ho pensato tutta la notte. Ma i boschi sono grandi. Non la troveremo mai.
– Magari troviamo delle impronte, o degli indizi. Vale la pena almeno di provare.
– Boh, va bene, allora proviamoci.
Cominciammo a setacciare la strada passo dopo passo, senza sapere neanche noi cosa stavamo cercando esattamente. Di certo non impronte, non pioveva da settimane ed il terreno era secchissimo, e in ogni modo non avremmo certo saputo come ricoscerle. Prendevamo in esame legnetti spezzati e mozziconi di sigarette abbandonati a terra, in una sorta di serissima parodia delle ricerche che si vedevano nei film.
– Era meglio se portavo Ercole. – Dissi dopo l’ennesimo inconcludente esame ravvicinato della cartaccia di un pacchetto di chewing-gum che forse ero stato proprio io a buttare lì.
– E cosa è, un cane da fiuto?
– Sempre meglio di noi.
– Eppoi non conosce neanche l’odore di Amina.
– Magari potremmo fargli annusare il tuo uccello, qualcosa lì potrebbe esserci rimasto.
– Cretino! – Mi lanciò un sasso, mancandomi. Ridemmo insieme. Impegnarsi in qualcosa, per quanto stupido, era un ottimo metodo per non pensare troppo.
Arrivammo al fiume impiegando quattro volte il tempo che ci mettevamo di solito, ma senza trovare nulla che potesse darci il benché minimo indizio sulla sorte di Amina. Ci fermammo davanti all’acqua indecisi sul da farsi. La strada proseguiva parallela al fiume risalendolo, era ancora abbastanza larga perché la si potesse percorrere con le jeep per un paio di chilometri, poi finiva vicino ad un vecchio capanno da caccia. Dalla parte opposta, seguendo il corso della corrente, c’era una traccia a malapena definibile sentiero. A volte lo prendevo per raggiungere delle pozze più profonde dove fare il bagno, ma in alcuni tratti era davvero stretto e scivoloso così di solito preferivo fermarmi lì. Guadando il fiume, infine, c’erano un paio di piste che si inoltravano nel folto del bosco. A volte ci entravano i cacciatori, io non mi azzardavo quasi mai da quella parte. Giacomo invece si era addentrato spesso in quelle che lui chiamava spedizioni esplorative.
– Le avventure…
– Cosa?
– Niente, pensavo a mia nonna. Dovremmo andare dall’altra parte del fiume.
– Perché, credi che Amina sia andata dall’altra parte?
– Non lo so. Come era vestita quando l’hai vista? Che scarpe aveva?
– Che domande sono queste, non le ho mica guardato le scarpe. Non lo so!
– Se era vestita bene per andare ad un appuntamento ed aveva delle scarpe eleganti, allora sicuramente non ha camminato molto. Se invece aveva delle scarpe da ginnastica forse è andata lontano. Se aveva i pantaloni corti può essere andata nell’acqua, se invece aveva i vestiti buoni è difficile che si sia bagnata!
– Ma cazzo, sei un genio, meglio di Sherlock Holmes! Non mi ricordo come era vestita di preciso, però aveva di sicuro i pantaloni corti.
– Non la gonna?
– No, sono sicuro, i pantaloni.
– Le hai guardato il culo, vero? – Gli sorrisi.
– Per forza! – Rise ed alzò la mano a chiedermi il cinque. – Quindi pensi che sia andata di là.
– Non lo so, ma da qualche parte bisogna partire, no?
– Però il bosco è grande, come facciamo a capire dove andare di preciso? Forse potremmo prima guardare il capanno. E se qualcuno la tenesse lì dentro?
– Non lo so. Ha senso, però…
– Dai guardiamo al capanno, tanto tra poco dobbiamo tornare a casa a pranzo. Semmai torneremo oggi pomeriggio e guarderemo di là.
Riprendemmo la strada che costeggiava il torrente, tornando a guardare se trovavamo qualcosa ai lati della strada. Lo sguardo però continuava a cadermi al di là del fiume, dove il bosco si faceva più fitto. Mi sembrava di sentire rumori, fruscii, di vedere movimenti tra gli alberi. Quando però mi giravo da quella parte non vedevo nulla, neanche un’ombra, neanche una rana che si gettava in acqua o un serpe strisciare per terra.
Arrivammo in vista del capanno. L’erba era altissima e gialla, sembrava fossero mesi che non ci passava nessuno. Per terra c’erano solo delle vecchie impronte di qualche grossa ruota, forse un trattore fermatosi lì chissà quando. Neanche una cartaccia, o una vecchia lattina. Se qualcuno fosse passato negli ultimi giorni, anche a piedi, avrebbe sicuramente lasciato dei segni, calpestando l’erba o piegandola. E invece non c’era niente.
– L’avevo detto, era meglio andare avanti.
– No dai, aspettiamo. Magari lì dentro…
Il capanno era un vecchio punto di appostamento, con quattro vecchie assi assemblate alla meglio con un po’ di rete e un tetto di lamiera. La porta era tenuta insieme da un solo cardine, e già da qualche metro di distanza si capiva che la vegetazione aveva cominciato ad invadere l’interno. Per terra non c’era neppure un’impronta. Nessuno era passato di lì.
– Entriamo lo stesso, voglio vedere.
– Ok.
Camminammo fino all’ingresso con cautela. Dentro era piccolissimo, non ci sarebbero entrate quattro persone. A terra c’erano due bottiglie di birra vuote e delle cartacce che forse una volta avevano avvolto dei panini. Come previsto l’erba era entrata dentro, ma non era così alta come fuori. Giacomo fu il primo ad entrare, andò sicuro verso l’angolo, si chinò e mi chiamò a guardare qualcosa.
– Ecco, qui. Qualcuno ci viene. – C’erano due preservativi, usati chissà quanto tempo prima.
Cercai un pezzo di legno per spostarli, non volevo certo toccarli con le mani. Li mossi un po’, sembravano molto vecchi, sicuramente più dei cinque giorni passati dalla scomparsa di Amina. Non c’entravano nulla con lei. Mi rialzai e guardai avanti, verso il bosco. Un grosso cinghiale era girato nella nostra direzione. Era nerissimo, enorme, con gli occhi gialli, e sembrava che il suo sguardo stesse cercando proprio me. Toccai la spalla a Giacomo per richiamarlo, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.
– Giacomo… girati… g-guarda…
– No Patroclo, girati tu.
Mi voltai. Come potevamo non aver notato entrando quello che c’era nella parete dietro di noi? Sembrava essere stato fatto con un grosso pezzo di carbone, o con un bastone annerito. Disegnato rozzamente sulle assi c’era un volto urlante, senza occhi. E sopra di esso, a grosse lettere maiuscole
I L B O S C O P R E N D E R A’
A N C H E V O I
CONTINUA…
Michele Borgogni
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