EditorialeRacconti brevi

Non chiamatela estate.

di Alessandro Undici

 

Trentotto gradi e afa.
L’estate è arrivata. Il tanfo di morte è diventato insopportabile. Altissime colonne di fumo denso si stagliano verso il cielo. L’aria è a tratti irrespirabile.

Gabbiani e corvi fanno incetta di carcasse in decomposizione. Mi è parso di vedere pure qualche avvoltoio, ma non ne sono sicuro.

Qualche giorno fa ho visto un branco di cani randagi e affamati dilaniare uno di quegli esseri mostruosi. L’hanno divorato nel giro di pochi minuti, fino a contendersi l’ultimo ossicino rimasto. Ho fatto il tifo per loro, anche se sono consapevole che un giorno potrei finire anche io nel loro menù o magari loro nel mio. Quanto mi mancano i barbecue!

È una gara spietata alla sopravvivenza. L’essere umano a quanto pare non è più in cima alla catena alimentare.
Non ci sono più regole, vale tutto.

Restano i ricordi delle estati andate… in campeggio, gli amici, i primi bagni e i falò lì dove ho dato il mio primo bacio.
I pomeriggi davanti a Facebook, aspettando che lei accettasse la richiesta d’amicizia, le storie su Instagram e i tornei alla Ps4.

Ricordo che all’inizio di questo inferno non riuscivo a reagire, preso dallo sconforto e sotto shock non toccai cibo per due o tre giorni.
Non è stato facile, anzi è stata tutta una merda.

Non si può spiegare a parole quello a cui ho assistito. Non saprei da dove iniziare e probabilmente non mi credereste.

Ok, ci provo!

Erano le undici della mattina, fui svegliato dalle urla disperate della mia vicina. Il tempo di infilare le scarpe e aprire la porta di casa; lì per lì non realizzai, ma era troppo reale per essere un incubo.
Sul pianerottolo mi si presentò la scena più agghiacciante della mia vita. Il marito della mia vicina era su di lei. Le stava divorando i seni, mentre dalla sua bocca uscivano strani versi e qualche rutto. Lei gridava e si dimenava poverina.
Ho provato a fare qualcosa, lo giuro, ricordo di aver dapprima sbraitato di lasciarla stare, con insistenza, ma niente. Adrenalina.

Capii che dovevo intervenire, fare qualcosa di concreto. Fu allora che istintivamente gli tirai un calcio, usai tutte le mie forze e mirai dritto allo stomaco dell’uomo; non servì a molto, si scostò solo per un attimo e poi continuò a banchettare con i seni della povera moglie. Non potevo crederci, se la stava mangiando, cazzo!

Preso dalla disperazione, con tutte le forze che avevo in corpo lo afferrai dai capelli e gli assestai una fortissima ginocchiata in bocca. Rotolò giù per le scale.

Non ebbi neanche il tempo di soccorrere la malcapitata signora, che udii altri versi, provenivano proprio dall’androne, mi affacciai e vidi delle mani appoggiate al corrimano, più di qualcuno stava salendo su per le scale. Dopo qualche attimo mi trovai faccia a faccia con un gruppo di questi famelici bastardi.
Tra di noi solo un pianerottolo di distanza. Erano capeggiati dal postino e vi assicuro che non era lì per consegnarmi una raccomandata. Mi puntarono. Erano decisamente troppi.

Dovevo rientrare in casa e dovevo farlo subito, con un balzo cercai di raggiungere la porta ma scivolai sul sangue che ormai aveva invaso completamente il pianerottolo. Riuscii a rientrare gattonando e a chiudere la porta blindata in una frazione di secondo.

Caddi a terra, spalle verso la porta, le mie lacrime erano interrotte solo dai conati di vomito.
Mentre le urla della vicina si trasformarono progressivamente in un flebile lamento.
L’avevano raggiunta per finirla. Non potevo più aiutarla. Guardai dallo spioncino, erano tanti, tutti proni e intenti a nutrirsi di lei. Panico.

Provai a chiamare i miei genitori, ma niente, non rispondevano. Il centralino delle forze dell’ordine era sempre occupato. Ci misi poco a capire che la situazione non stava degenerando solo nel mio condominio, dalla finestra vidi scene raccapriccianti. Vi erano auto che a tutta velocità investivano i pedoni, poliziotti che scaricavano interi caricatori ad altezza d’uomo. Caos.

Mi ci sono volute all’incirca settantadue ore per metabolizzare il tutto, dopodiché decisi che era arrivato il momento di reagire.
La tv non trasmetteva più alcun notiziario. Internet e il telefono erano fuori uso.

Mi feci coraggio, uscii di casa, alla ricerca di cibo. La città non aveva più regole, vasti incendi e forti esplosioni si susseguivano costantemente. Apocalisse.

Fortunatamente sotto casa mia c’è un piccolo minimarket, di cui ho le chiavi di riserva poiché ogni tanto aiutavo l’anziana proprietaria a caricare e scaricare la merce. Ho aspettato il momento giusto e sono uscito dal portone, avendo premura di lasciarlo socchiuso. Arrivato davanti al negozio ho aperto la porta di servizio e sono sgattaiolato dentro in batter d’occhio.

Ho fatto razzia di cibo, bevande, batterie, torce e tutto ciò che avrebbe potuto farmi comodo. Ho riempito un intero carrello e sono rientrato frettolosamente in casa.

Il giorno dopo decisi che quel palazzo sarebbe dovuto diventare il mio rifugio sicuro.
Ho iniziato fortificando il portone, prima l’ho sigillato con travi di legno e chiodi, e infine bloccato dall’interno con tre strati di armadi e mobili vari.
Ho preso in considerazione più scenari, devo essere preparato.

Se dovessero provare a sfondare il portone, e malauguratamente ci riuscissero, ho studiato due piani di fuga. Pianificazione.

Piano 1: Fuga dal tetto.
Ante di legno che collegano i due tetti. Ho unito più ante tra loro. In caso di necessità creerei un ponte tra i due terrazzi.
Una volta giunto dall’altra parte userei le scale per arrivare a terra e fuggire.

Piano 2: Discesa dai balconi.
Ho posizionato delle scale che collegano i balconi fino a terra, chiaramente sono ben occultate in modo che chi è a terra non possa salirvi (entro ed esco da qui).

Spero di non dover mai essere costretto alla fuga, anche perché non saprei dove andare.

Sono passati 40 giorni.
Manca l’acqua, così ho sistemato tutti i secchi e i contenitori che ho trovato qui sul terrazzo con la speranza che prima o poi ne venga giù un po’. Non posso lavarmi con l’acqua in bottiglia, la sto razionando e la conseguenza è che inizio a puzzare di cane morto.

Me ne sto quasi tutto il giorno qui sul terrazzo del mio edificio.
Sopravvivo (sì, perché data la situazione vivere è diventata una parola troppo grande).

Ombrellone rubato da un’auto in sosta e sedia a sdraio presa in prestito dalla vicina di cui non è rimasto nulla se non un ciuffo di capelli… non penso abbia niente da ridire a riguardo.
Desolazione.

I miei aperitivi in terrazza consistono nel mangiare fagioli, tonno e tutta la robaccia in scatola che trovo, sorseggiando birre calde, il tutto mentre scruto l’orizzonte col binocolo rubato al tizio del primo piano.

Revolver Calibro 38 e marlboro rosse sul tavolino, non so se mamma s’incazzerebbe più per l’una o l’altra cosa, ma se ne farà una ragione.
Non sono più un bambino. Papà sarebbe fiero.

Mi manca la mia famiglia, Dio solo sa dov’è ora. Dio appunto, chissà se n’è mai esistito uno. Se esiste di sicuro in questo momento è girato dall’altra parte. Sconforto.

Ogni dannato giorno appena scende la sera ho paura, nessuno mi ha detto come affrontare tutto questo, sono stato catapultato di punto in bianco in quest’incubo, senza libretto di istruzioni né tutorial.

Un incubo che sembra non avere fine, e non mi resta altro che trovare rifugio nei sogni, quelle poche volte in cui non ne faccio di brutti. Uno dei più terribili e ricorrenti mi vede solo a tu per tu contro tutta la mia famiglia trasformata.

Sì la notte… che ve lo dico a fare, è il peggio del peggio. Le strade si riempiono di lupi e chissà quali altri predatori famelici.
Senza contare gli spolpacarne, che sono ovunque. Esseri diversi ma tutti uniti da un unico obiettivo, cacciare.

Ululati, grida e strani rumori echeggiano nelle tenebre.

Penso che a breve inizierò a prendere dei sonniferi, così se dovessero arrivare a prendermi me ne andrei da quel che rimane di questo mondo senza sentire nulla, anche perché nulla è quello che sto provando ora. Rassegnazione.

Le mie giornate passano tutte uguali nell’attesa che possa cambiare qualcosa. Dov’è l’esercito? dove sono finiti tutti i buoni? E se fossero tutti al sicuro da un’altra parte?
Si saranno già dimenticati di me. O forse sono rimasto solo, ad affrontare tutto questo?
Vorrei poter parlare con qualcuno, devo trovare delle risposte! Interrogativi.

Mi sa che non mi sono neanche presentato, scusatemi, mi chiamo Alex, ho solo quindici anni e ho già ammazzato sette fottutissimi zombie.
Questo però non è un videogioco, non ci sono checkpoint e so già che al primo errore sarà davvero game over.
Fine.

 

Alessandro Undici.

 

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