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LA SCALA A CHIOCCIOLA

di Joe OberhausenValdez

 

Sono solo. Nel silenzio di un qualcosa di simile alla notte, penso ai giorni passati, e così il turbinio degli eventi mi trascina in sensazioni primordiali, laceranti: è la sopravvivenza di chi sta per affogare, solo come un cane malato ed esiliato, annichilendo ogni speranza di ritornare in superficie, che quandanche fosse sublime, meravigliosa e impetuosa, un’aspirazione, non riuscirebbe a salvare, se non con estremo artificio. Annaspando vedo il cielo, sento l’aria nei polmoni, sono ancora esistente… mi giro con tutta la fatica spossante e lancio le mie braccia alla ricerca di un virgulto. Ma non c’è nulla. Né una mano, né un dio. Sto per immergermi nuovamente in un fosco dolore, perché so che non mi salverò. Colui che fui o non fui sparirà in un eremo oceanico, svanendo così in un istante, abbandonato alla propria alterigia. Ma ecco che una corrente sottostante mi riporta alla luce, alla vita, respiro, salgo sulle acque e mi innalzo con ali pesantissime al di sopra del mare, al di sopra del volgo. Ero un dio.

 

Mi risvegliai vivo in un tunnel.

La cloaca era oscura, non vedevo niente ma sentivo una puzza terribile, tutto il corpo imbrattato di fango e lordume, camminavo immerso in una melma viscida dove galleggiavano strani sudici corpicini. Sembravano animali morti, forse scoiattoli o topi. Tastando il muro riuscii a scorgere finalmente una scala che portava a una botola di ghisa; forse avrei avuto la possibilità di aprirla e uscire all’aria aperta. Il portello era pesantissimo, ma infine si spalancò. Vidi il cielo grigio e poi una città deserta. Faceva freddo e la mia tuta mimetica non mi riscaldava, e come avrebbe potuto, era fradicia e ridotta a brandelli. Dovevo cercare al più presto vestiti asciutti, pulirmi e possibilmente fare una doccia. Facevo proprio schifo.

Entrai in uno dei negozi di abbigliamento presenti ai due lati della strada. Le porte erano spalancate, i locali versavano in stato di abbandono e sporcizia. Presi quel che mi serviva e proseguii per quella via disabitata.

Mi sedetti su una panchina, tirai fuori la pipa, la riempii e fumai.  Di fronte a me si stagliava un palazzo circondato da un giardino. Un tempo forse era un albergo di lusso, pieno di gente… gente del cazzo. Adesso però era fatiscente, lugubre e silenzioso. Mi diressi alla porta ed entrai, diedi un’occhiata in giro, ovviamente non c’era nessuno neanche lì. Alla reception afferrai una delle tante chiavi e salii le scale, giunto al primo piano mi diressi verso la stanza corrispondente al numero della chiave. Era pulita, spaziosa, dotata di un divano e di un letto con lenzuola impolverate. Ero stanco, solo, affamato, forse pure disperato. Mi buttai sul materasso e mi addormentai immediatamente.

Il sonno profondo mi ghermì trascinandomi indietro nel tempo, e così sognai la scala a chiocciola.

Ero bambino e volevo salire su in mansarda inerpicandomi sulla scala a chiocciola della cameretta attigua alla cucina. Mia madre mi ammoniva sempre di non salire, poiché sopra c’era… il lupo. Ma io, con le manine già aggrappate al primo gradino, sorridendo a lei ripetevo “upo… upo”. Se anche mi fossi imbattuto nella belva feroce, nera, con denti da predatore, se anche avessi visto quella mostruosità pronta a cibarsi delle mie viscere, accanto a me ci sarebbe stata la mamma. Lei ci sarebbe stata sempre e ovunque…

Eppure adesso non c’era… Ero solo, abbandonato in una città sconosciuta, sperso in una strada vuota, vagante in un mondo senza senso e senza sole. E non c’era alcuna luce, ogni raggio era assente, scomparso chissà dove, chissà da quanto.

Un rumore improvviso mi svegliò di soprassalto. Proveniva dalla strada, pareva un cingolato che da lontano arrancava nella mia direzione. Corsi alla finestra e mi affacciai. Si trattava di una ruspa che dopo qualche minuto arrivò davanti allo stabile. L’autista mi notò affacciato alla finestra e mi fece cenno di scendere. Imbracciai il mio fucile, misi lo zaino in spalla e scesi rapidamente le scale, attraversai di corsa il giardino e infine raggiunsi il mezzo. Dal veicolo semovente, logoro e malmesso, discese una ragazza che impugnava una pistola. Mi puntò contro l’arma intimandomi di non muovermi.  Ci presentammo, lei era Miki.

Aveva gli occhi aggraziati, i capelli ricci, un corpo slanciato e avvenente: sembrava una bambola o una dea nordica. Mi chiese se avessi dei viveri, ma non ne avevo, in realtà anche io ero così affamato che mi sarei mangiato anche lei. Ero a digiuno da giorni, prigioniero in quel tunnel non so per quanto tempo.

Entrammo in hotel e insieme perquisimmo i locali del piano terra in cerca di acqua e cibo. Forse nella dispensa della cucina del ristorante interno avremmo trovato alimenti a lunga conservazione ancora commestibili. Lei non era più diffidente nei miei confronti, tanto che si arrischiò a darmi le spalle. Fummo fortunati e rinvenimmo alcune scatolette di tonno, ci accovacciammo per terra, l’uno di fronte all’altra, ci guardammo e senza proferire parola iniziammo a mangiare. La fortuna continuò ad arriderci, c’era anche qualche bottiglia di vino rosso nella dispensa, ne aprimmo subito una e bevemmo a canna.

Dopo che ci scolammo l’intera bottiglia lei cominciò finalmente a parlare. Abitava in una fattoria a cinque km circa dalla città, la sua proprietà era attraversata da un piccolo fiume che si immetteva in un lago, freddo pure d’estate. Sugli argini si ergevano alberi di alto fusto e decine di bambù. Era cresciuta in quella casa e non si era mai spostata, nemmeno quando si era “maritata”. La sua famiglia allevava animali da generazioni e così anche lei era cresciuta in campagna nel culto della terra, nell’amore per conigli e galline, nel distacco dalla società falsa, avida, insensata e schizofrenica. Non conosceva la pericolosità dell’infamia, dell’arrivismo, della gente del mondo “vero” che invece io avevo vissuto. La vita logorante, la città caotica, il senso del tempo infinito che pur passava lesto e io mi sarei ritrovato ben presto vecchio, buttato in un ospizio, malato e solo. E allora un giorno presi la moto e il mio zaino e abbandonai la civiltà…

Miki sapeva sparare. Suo zio Joe, un vecchio legionario, la portava da piccola al fiume e lì vicino, su un tavolaccio logoro, poggiavano lattine e bottiglie vuote. Si piazzavano a quindici metri e poi si tirava al bersaglio. All’inizio zio Joe le teneva la mano per sicurezza, ma la piccola divenne ben presto brava e sicura, così cominciò a usare da sola la pistola. Pensare a un’arma nelle mani di una bambina potrebbe apparire cosa abominevole, strana e forse paranoica. Ma zio Joe era paranoico e sapeva benissimo che un giorno sarebbe stato utile far apprendere quell’arte. La vita era una merda e la gente inaffidabile. Le inculcò la mania delle armi perché lei avrebbe dovuto imparare a difendersi contro chiunque, poiché il divario tra un predatore e una donna è sempre un rischio. Joe le insegnava tutto quello che sapeva e nel suo schedario mentale possedeva tanto, persino troppo. In sintesi l’addestrò.

Era anche prodigo di regali, di solito pupazzi, peluche, giocattoli. I preferiti di Miki erano un orsacchiotto e un binocolo verde che aveva mimetizzato lui stesso.  Alla morte dei genitori, Joe si prese cura di tutto e Miki era felice, lo adorava come fosse suo padre, una figura mitica, un amico superiore, addirittura un dio… o forse un demone. Sapeva che avrebbe sempre risolto i suoi problemi, rasserenato la sua tristezza, l’avrebbe coccolata fino a farla ridere e gioire. E per molto tempo fu così.

Miki cresceva felice, buona, gentile, bella, solare come i suoi capelli lunghi e chiari che le scendevano sulle spalle. Grazie allo zio diveniva sempre più pura, briosa, festosa e gioviale.  Ma un giorno Joe morì e Miki restò sola.

E così l’Amica con la falce la trasformò, abbandonandola a un destino senza dio, senza scopo, senza l’unico compagno di cui si potesse fidare. I mesi seguenti passarono nella più completa indifferenza di quella piccola oasi di felicità in cui viveva. Quelli che un tempo erano suoi amici erano spariti da anni, senza un pianto e forse anche senza un rimpianto. Divenne una cagna rabbiosa e maledetta, un’asociale priva di quell’unica anima che le avesse mai riscaldato il cuore. Pianse, s’indurì, e mutò il sorriso in una smorfia di odio. Fino al giorno in cui conobbe me.

Di fronte a quella bottiglia svuotata ridivenne gioiosa e sorridente. Comprese che con me avrebbe avuto sempre l’ardore e la spensieratezza di chi attende sincera e speranzosa un avvenire migliore. Sognando e mirando a un desiderio mai vano, confidando che la propria rinascita non è la fine ma il varco da oltrepassare affinché l’avvenire sia radioso. Le sue notti non sarebbero state più insonni per i pianti, ma colme di calore, poiché meritava di essere avvolta da braccia desiderose, aggrovigliate in lenzuola fragranti di essenze indelebili. Un’afflizione che si sarebbe mutata in una distensione nitida e serafica, tuffandosi e immergendosi in una profondità di voluttà ormai perenne e sconfinata. Entrando nella sua anima, assaporandola, gustandola, comprendendola, sarebbe divenuta conscia della sua unicità. In lei ci sarebbero state la volontà e la forza, la passione e la festosità. L’avrei aiutata a essere pregna e straripante di dolcezza e ardore smisurato. E tutto in una notte.

Salimmo al piano superiore, la luna rischiarava la stanza buia. Miki si distese sul letto, io mi sdraiai su un materasso preso da un’altra stanza che adagiai per terra vicino alla finestra. Fuori era un cimitero.  Ci fu qualche minuto di silenzio, poi ruppi il ghiaccio e le raccontai di una donna, una specie di fidanzata che avevo avuto per alcuni mesi e poi mai più rivista. Quella donna una notte mi svegliò per dirmi che nell’angolo della stanza in cui dormivamo c’era uno gnomo, da quel giorno scomparvero lei e lo gnomo. Scoppiammo a ridere. Miki si rilassò e parlò senza fine.

Attraversammo lo scibile, giungendo oltre… per poi ritornar stabili e immodificabili nel territorio della nostra forma mentis. Del resto è naturale che ciascuno valuti e interpreti e deduca secondo la propria formazione, attraverso le proprie esperienze, i propri intensi stati d’aspirazione e di speranza. A ogni modo, bisogna spingersi verso l’ignoto per trovare risposte a fatti e avvenimenti che le attuali scienze e conoscenze non ci danno. Occorre transvalutare le apparenze e le assenze di ogni verità, poiché non si giungerà mai alla rivelazione e alla comprensione di un fatto accaduto semplicemente ponendosi in una sorta di concezione manichea del sapere e del credere. Necessita solamente avere la volontà di spingersi al di là. Alla ricerca di nuovi mondi, di nuove terre e anche di nuovi mostri, gnomi, alieni, spiriti e fate turchine comprese.

Dio come eravamo avvinazzati.

 

Il sole ci svegliò abbracciati nello stesso letto. Lei puzzava di stalla e io di fogna.
 


 


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