EditorialeFANS

DISOSSATI

di Rita Vergnano

 

Ombre che danzano sulle pareti. Sento la testa ovattata, dev’essere il calmante che mi ha fatto prendere ieri sera l’infermiera.

C’è un fruscio sul pavimento, come di una sposa che cammini leggera con lo strascico. Voglio guardare ma non ne ho il coraggio. Pian piano mi sollevo dal cuscino, giro la testa e abbasso lo sguardo.

Striscia, me lo vedo venire incontro, molle e gommoso, avanza sulle braccia vuote che sembrano strisce di stoffa d’uno spento colore avano bruciato, come un sacco di iuta abbandonato e consumato dal tempo e dalle intemperie.

Sacco che nasconde vermi brulicanti con la forma di un cadavere.

Sembra un mantello unto e incrostato che avanza per terra, come mosso da infinite termiti che lo fanno sembrare vivo. Ma è proprio vivo. Quella massa informe esiste…

Si sposta sul pavimento di marmo, si avvicina e si solleva, quasi senza uno scheletro, come sollevato dal vento, come quei palloni che i venditori nelle fiere tengono legati a un ceppo, dalle forme umane e animali che ondeggiano al vento. Sembra un aerostato quasi sgonfio o un serpente che si erge attratto dal flauto di un incantatore e dal loro dondolio sinuoso.

Si erge e lo vedo in volto: piatto, informe come una maschera di gomma di Carnevale abbandonata, la bocca è un cerchio oscenamente spalancato, sembra un’orrida bambola gonfiabile in attesa di prendere forma.

A fatica solleva quello che sembra un braccio bidimensionale, come una creatura di Flatland, strisciandolo sul letto. L’avvicina al mio viso. È freddo come uno straccio bagnato. Odora di sangue rappreso.

La luce che filtra dalla finestra illumina le striature bluastre e rosse del circuito venoso.  Sembrano un groviglio di linee disegnate da un bambino con la penna rossa e blu, arrabbiato per il brutto voto preso.

Apre quell’orrendo buco al centro del viso, sotto il naso pendulo e mi parla. Tenta di parlarmi. Perché  sento solo un rantolo gutturale  AAAAMMMIIIOOSAAA.

Non capisco, ma mi sento molle, incapace di alzarmi, vorrei fuggire, ma sono quasi appiattito sul letto, come se fossi un corpo senza scheletro. Poi sento bruciare la pelle, si tende come se da dentro migliaia di larve cercassero di uscire.  Brucia, è un dolore ai limiti della sopportazione umana, mi gira la testa come sul punto di svenire, come quando nei sogni ti sembra di sdoppiarti e che un altro “Te” etereo si stacchi dal corpo fluttuante, ma non è un altro me. È il mio scheletro. Lo vedo librarsi in alto, mentre mi sento sempre più schiacciato e schiacciato sul letto. Ne distinguo la colonna vertebrale, le scapole, intravedo le costole protese come rebbi.

Si libra per un momento sopra di me, poi fa una capriola come se si sentisse precipitare, si mette in piedi dondolando come una marionetta. Si gira e lo vedo per un attimo in volto. Sogguardo il suo ghigno di morte, i suoi occhi vuoti, i denti lunghi e serrati, arretra verso quella strana creatura strisciante che sembra venire da Flatland, lo vedo scomparire. I lineamenti del teschio si fondono con la maschera di gomma. Le costole riempiono quel mantello unto. Omeri, ulne, femori e tibie riempiono quelle strisce di stoffa. E la bambola si irrigidisce, la pelle si tende e le linee bluastre e rosse del circuito venoso si fanno più chiare e meno evidenti.

Si gira e se ne va.

Resto qua, rantolando, cerco di sollevarmi, ma non ho impalcatura. Striscio un braccio, cade inerte dal letto e sento tirare la pelle. Cerco di scivolare giù.

Cado dal letto con un tonfo. Plonf, mi sento stropicciato come uno straccio. Devo distendermi e muovermi. Strisciando.

Devo andare a rubare uno scheletro anch’io per uscire da quest’incubo.
 


 


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