Gli stivali di pelle
Quella sera, come tutte le sere, aspettavo la metropolitana al capolinea di San Donato. Faceva freddo e non volevo fumare quell’amica sigaretta in superficie. Nel piazzale tanta nebbia, brulicava di gente strana: ubriachi, stranieri, disgraziati (lo ero pure io) che barcollavano e litigavano alla rinfusa, sparpagliati nella semioscurità. Laggiù ai binari non si vedeva nessuno, d’altronde era la vigilia di Natale. I treni della metro partivano ogni mezz’ora. Stanco e affamato attendevo nella solitudine più tetra. Scesi ai binari.
Da una delle scale mobili rotolarono strattonandosi, tre uomini. Forse erano drogati o ubriachi. Mi chiesero una sigaretta, tirai fuori il pacchetto e ne offrii tre, meglio abbondare, pensai erroneamente. Se ne andarono, ma dopo pochi minuti ritornarono e me ne chiesero altre. Dissi di non averne più. Per tutta risposta uno di loro si buttò improvvisamente su di me afferrandomi il collo. Gli diedi una testata in bocca e, dopo essermi fulmineamente svincolato, lo gettai nel fossato del treno. Gli altri due, distanti pochi metri da me, rimasero immobili, indecisi, ne approfittai e li caricai con due poderose pedate nei coglioni. I bastardi rotolarono a terra e io li sfinii con una serie ripetuta di calci in faccia.
Una rabbia improvvisa, liberatrice, mi era uscita fuori. Dopo il pestaggio ritenni opportuno denunciare l’episodio alla polizia, anche perché avrei potuto subire delle ritorsioni, e così corsi all’esterno per cercare una delle pattuglie che di solito controllavano a più riprese in quel luogo malfamato. Ma non si vedeva neanche un cane. Ridiscesi, cercando disperatamente qualche essere umano, ma non trovai nessuno. Nel frattempo, fortunatamente, la metro giunse al binario. Diedi un’occhiata in giro, per evitare di essere nuovamente assalito da quella gente, ma quei ragazzi erano spariti.
Il treno era vuoto, in caso di aggressione mi sarei trovato in trappola. Alla prima fermata salirono un vecchio bavoso e due prostitute. Schifose, luride come cagne con la scabbia, puzzolenti, laide, volgari, e perfino rumorose e loquaci.
Io ero affaticato, non vedevo l’ora di raggiungere il mio bilocale, mangiare una bistecca, rilassarmi con qualche bicchiere di vino rosso e tracannarmi mezza bottiglia di grappa. Ma allora ero astemio.
Intanto le “signore” gridavano e ciarlavano usando un’insopportabile e sconosciuta lingua e ridendo sguaiatamente. Non ce la facevo più. Finalmente ero quasi giunto alla mia fermata, ma quando mi alzai per dirigermi alla portiera automatica del treno, d’un tratto una di quelle “zoccole” mi si avvicinò e, con la sua puzza di lordura, mi abbracciò, mettendomi le lunghe unghie laccate sulla patta. Eh, sì, voleva copulare.
“Trentamila lire, bello”.
Mi girai di scatto e, con una forza bestiale, quasi la strangolai, poi con un morso le volevo staccare quel grosso naso, dal sapor di maiale decomposto. Per fortuna le porte si aprirono e fuggii verso la libertà, verso l’aria pura e la civiltà.
La fermata era al Corvetto e da lì sarei andato a piazzale Cuoco, dove stava casa. Quella zona di Milano faceva schifo, e di certo non era migliore di quella del capolinea da cui ero salito. Sbucai da una delle tante uscite, correndo con ansia spasmodica. Ero senza fiato. Mi fermai e riposai. Ma fu a quel punto che alcuni uomini mi circondarono. Non mi fu chiesta nessuna sigaretta, volevano solo scassarmi. Esposero i loro denti bianchi desiderosi di strapparmi le carni. Non ricordo come, ma riuscii a scappare dalla loro disumanità. Corsi veloce come non mai per qualche chilometro, fino a quando non desistettero dall’inseguirmi. Infine raggiunsi finalmente l’agognata dimora.
La mia casetta, un monolocale al quarto piano di un edificio senza ascensore, era sita in uno dei tanti quartieri della periferia degradata. La sera era pericoloso uscire, ma tanto io amavo restare in casa, solo ogni tanto andavo a correre al parco.
L’indomani sarebbe stato Natale e non mi sarei mosso da casa, ero in ferie! Quei giorni passarono in fretta, poi dovetti ritornare al solito lavoro. Ero guardingo, ma non accadde nulla di tremendo. Un giorno il capo della ditta mi comunicò il trasferimento nella sede centrale di Milano.
Quell’edificio era tetro, enorme, vecchio, vicino alla stazione centrale. All’interno ci si perdeva tra scantinati, dedali di uffici, corridoi, scale, padiglioni e sottopassaggi. Impiegai qualche giorno per non perdermi lì dentro. Alla reception c’era una cicciona cattiva, gradassa e antipatica. Inevitabilmente la incontravo spesso.
Il mio ufficio era in condivisione con un altro impiegato. Mi trovai bene con lui, parlava poco. Ma dopo qualche giorno al suo posto arrivò una ragazza.
Anche se era una struttura aperta al pubblico, noi ci facevamo i cazzi nostri. Nell’ufficio c’era un locale comunicante, una specie di grande ripostiglio, con una scrivania e la moquette verde. La usai per scopare con quella ragazza. Lei mi faceva il filo già da qualche giorno lanciandomi occhiate lascive, fin quando una mattina non ruppe il ghiaccio con un “ciao, occhi di plastica”. Fummo veloci. Dopo un po’ di sorrisi e smancerie, in pausa alla macchinetta del caffè, le chiesi simpaticamente: “quanto vuoi per scopare?”, lei rispose: “per te è gratis, non te lo potresti permettere”. Andammo nel locale con la moquette verde e ci scopammo.
I piani dell’edificio erano sette, vi lavorava gente con la puzza sotto il naso che io disprezzavo. La maggior parte portava la cravatta, seguendo schemi preconcetti, da manichini semoventi, esseri dalle traiettorie prestabilite, comportamenti da limitate menti annebbiate.
Io e la tipa “ci scannavamo” ogni giorno sulla moquette verde. In alternativa lanciavamo un cartone per terra nel bagno e ci ricreavamo. E come esistono le macchine per cucire, o per il caffè, lei era una macchina da sesso. Spesso, durante il rapporto, le dicevo che poteva fare benissimo la puttana perché si sarebbe arricchita. Lei se ne fotteva, rideva e continuava a scopare.
Quell’amore fra noi durò fino al giorno in cui scoprii che eravamo incompatibili. Era quasi l’ora della pausa pranzo, litigammo, lei uscì fuori dalla stanzetta e io, per il nervosismo, ruppi con un pugno il vetro della finestra del mio ufficio e mi sminchiai la mano. Dopo qualche minuto entrò un collega che mi disse che la mia amica – lei chiamava la nostra storia “un’amicizia strana” – era completamente ubriaca, seduta sulla finestra coi piedi fuori e gridava frasi sconclusionate. La raggiunsi, la vidi in pericolo e le chiesi se fosse impazzita, che minchia stesse facendo… Sbraitò e mi buttò addosso frasi isteriche, di odio, epiteti da baldracca dei Quartieri Spagnoli di Napoli. E da lì probabilmente veniva.
Esaurite tutte le volgarità inusitate che mai erano uscite dalla sua bocca, eccelsa bocca, si buttò su di me per colpirmi. Riuscii solo a bloccarla, e, mentre la quietavo, mi percuoteva a suon di pugni la schiena. Finalmente pianse e si calmò. Chiudemmo a chiave la porta e ci amammo per terra. Passò ogni malumore e isterismo. Fino al successivo.
Eravamo diversi. Io preciso, metodico, lineare, puntuale, con una forma mentis rigida. Lei dispersiva, superficiale, indaffarata sempre in mille impegni. E questa sua natura mi infastidiva molto. Anzi non la sopportavo proprio.
Eravamo davvero caratterialmente incompatibili, anche se in molte vicende, in alcune sensazioni, e soprattutto quando stavamo insieme raggiungevamo una compenetrazione totale, una sintonia straordinaria che aveva la durata dell’infinità, ma che, nonostante ciò, sfumava e poi diveniva semplice, anzi totale contrapposizione di idee e atteggiamenti. Un contrasto acceso e ripetitivo che si verificava giorno per giorno, e per più volte nell’arco dello stesso dì.
Mi ero stancato. E pure lei. Era un dissidio che non portava da nessuna parte, se non a uno stato di malanimo. Quindi decisi di intraprendere una strada diversa dalla sua. Purtroppo quella donna l’avrei rivista e incrociata lo stesso e spesso. Lei all’inizio la prese come una simulazione, una mia tattica per conquistarla e annientarla completamente, cioè soggiogarla a me, e si comportò di conseguenza, seguendo reazioni “giocose” e di sfida. Con una scusa apriva la porta del mio ufficio e si presentava con un “amico” nuovo; costui lo ritrovavo spesso ad attenderla fuori dall’edificio a fine lavoro. A me sinceramente non fregava niente, anzi mi ritenevo fortunato che ci fosse qualcuno che se la caricasse e se la portasse via. Ormai ci eravamo bruciati e ricostruire qualcosa non avrebbe avuto più senso. È vero che ogni volta che mi si avvicinava mi si accendeva un fuoco improvviso, una passione mista tra la sensualità, il furore e l’odio distruggitore, ma poi mi passava. ‘Sta troia!
Tutto quello che prima sembrava amore sensuale, istintivo, impetuoso, adesso era solo una sensazione di profondo disprezzo. Ed era corrisposto pure in questa sua mutazione.
Fu una guerra che durò poco, perché lei venne licenziata qualche settimana dopo. Nel suo lavoro era brava, ma inaffidabile per tutto il resto, comportamenti scorretti, orari non rispettati, e altro.
Passarono mesi senza più incontrarla. Forse la intravidi un giorno mentre parlava o sbraitava a un telefono pubblico. Sì, era lei. Gridava con qualcuno che dall’altra parte della linea si stava sicuramente rompendo i coglioni. Mi guardò, incrociammo gli sguardi per un breve istante, fece finta di niente e nemmeno io la cacai. Vaffanculo.
Quei giorni con lei erano stati l’illusione dell’eternità. Io ricercavo sempre con strazio, passione, incoscienza, con l’ansia di un disperato che sta annegando, una vitalità che non avesse mai fine, che avesse le sembianze di una scintilla che accende il cannone. L’afflato vitale, lo spirito di una spinta indelebile, un alito che non puzzasse di cenere e di veleno.
Era il periodo dell’illusione, della speranza, dell’entusiasmo che innescano reazioni incontrollabili, fantastici slanci a capofitto tra apparenza e sostanza. Il tempo del tutto è possibile, in cui, nelle mie riflessioni fallaci e mistificatrici, mi riflettevo e comportavo come un demiurgo, quasi come un manipolatore del destino. E non mi avvedevo che Esso scorreva e si autodeterminava già da solo, senza le mie precauzioni, le mie azioni, i miei slanci sanguigni, senza la mia ottusità. Attimi di ispirazioni ed esalazioni di una bestia da soma.
Qualche mese dopo, era un sabato, avevo appena finito di pranzare, me ne stavo disteso sul letto della mia casa al quarto piano. Una telefonata mi svegliò dal torpore di un sonnellino. Era lei. Mi chiedeva se avessi un computer, anche scassato, da regalarle. Un ferro vecchio ce l’avevo sempre di scorta, lo sapeva benissimo. Le dissi che poteva passare a prenderselo quando voleva. Non mi stupii che fosse già sotto casa…
Citofonò e le aprii. Salì le scale. Le andai incontro sulla soglia del pianerottolo. Aveva capelli bellissimi, un viso luminoso e attraente, anzi accalappiante, pantaloni di pelle e quegli stivali neri che io adoravo. Sembrava una zoccola.
Mi disse subito che ad attenderla in strada c’era il fidanzato per cui non si sarebbe trattenuta molto. Le chiesi se avesse almeno il tempo di una scopata. Mi rispose di no, ma mi sorrise. Voleva dire che dovevamo sbrigarci. Mi buttai sul viso e la baciai, poi cominciammo a fare l’amore sul letto cigolante. Qualche minuto dopo, sentimmo la vecchia del piano di sotto bussare al suo soffitto con solito manico di scopa. Mi avvertiva che stava dormendo, che facevo troppo rumore e non voleva essere disturbata. A quel punto, intrecciati com’eravamo, rotolammo dal letto e ci trascinammo nell’altra stanza. E lì continuammo, e lì finimmo. Il fidanzato continuava a rompere le scatole, telefonandole. Ci alzammo dal pavimento, eravamo sudati, ovviamente. Le chiesi se volesse fare una doccia, ma rispose che avrebbe avuto il piacere di portarsi per qualche ora quell’ultimo… pensiero di me, o come lo chiamò lei: “il tuo odore addosso”. Ci salutammo, attesi che scendesse le scale, mi affacciai al balcone, la vidi uscire dal portone centrale e avviarsi verso una macchina. Lei si voltò verso il mio appartamento, sorrise, mi salutò alzando il braccio. Non ci saremmo mai più rivisti.
E fu il suo ultimo riverbero in quel pomeriggio assolato di un luglio qualsiasi.
Joe Oberhausen-Valdez
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