Sul tetto di un museo
Quella sera uscii di casa con un progetto precario, in quanto credevo di dover parlare con un’amica… credevo.
In breve l’amica non era uscita ed io avevo dovuto organizzare la mia serata in modo diverso. È indispensabile lavorare contemporaneamente su noi stessi e sulla nostra proiezione all’interno di una società, di un gruppo, per non trovarci mai nella condizione di domandarci con chi poter trascorrere una serata.
Ovviamente le compagnie si dividono in fasce di preferenze ed io in quel periodo avevo già capito qual era la mia su quelle da frequentare: Alessandro, Freddy, Stefano, Anastasia, Stefania, Marina, Rossana e Alba.
Quella sera non avevo previsto di stare con loro, poiché, arrivato in piazza e avendo visto la desolazione che si portava addosso, mi ero rassegnato ad una birra, una sigaretta ed un rapido rientro a casa.
Incontrai Giorgio, ventiquattro anni, amico d’infanzia.
Passeggiammo nella piazza deserta parlando di una serata programmata per quella settimana.
Decidemmo così di tenerci informati ed eventualmente di decidere se andare o meno.
Mentre ci dirigevamo al bar per prendere una birra, sentii in lontananza una delle frasi che ormai facevano e fanno parte della mia vita: “Me fra”, in dialetto equivalente a “fratello”.
Alessandro, compagno d’avventure dell’adolescenza, amico di comitiva, fratello di vita, la persona che da sette anni circa reputo la più stretta a me.
Ci sarebbero da raccontare molte, troppe situazioni, vissute insieme, per le quali non basterebbe un libro intero, quindi è necessario che mi limiti a questa scarsa, non degna descrizione di quest’amicizia vera.
Solito abbraccio.
- “Me fra” esordii
- “Me fra” ricambiò con il solito sorriso
- “Come va?”
- “Bene bene, sono uscito proprio adesso tu?”
- “Anche, splendidamente”
Mentre affrontavo la discussione con grande piacere, come sempre, mi sorse un complesso mentale, ricordandomi che stavo parlando con Giorgio, che avrebbe avuto tutte le ragioni… qualora si fosse sentito in disparte: in quel momento, la mia foga nel salutare una persona che conoscevo da una vita e mezzo, mi aveva portato a trascurarne balordamente un’altra, ovviamente nella maniera più involontaria.
Così cercai di rivolgere nuovamente l’attenzione a Giorgio che tuttavia sembrava non essersi sentito in imbarazzo o in disparte, anzi aveva capito, con l’idea più matura che si possa immaginare, che un amico di una vita è un amico di una vita.
Alessandro si diresse al bar ma prima mi sussurrò:
- “Stasera devi rientrare a casa presto?”
- “Non ho problemi di orario perché?”
- “Vieni con noi allora, stiamo tutti insieme”
- “Con grandissimo piacere ovviamente”
- “Perfetto allora”
Ciò che rende più facile la distinzione fra un amico ed un fratello è la semplice costatazione che mentre un amico ti aiuta quando glielo chiedi, un fratello ti aiuta, senza darti il tempo di chiederlo.
Giorgio pagò una birra, la divise e mi porse in un bicchiere la mia metà.
Lo ringraziai e bevemmo insieme quella bevanda fresca, tipica dei periodi estivi, seduti su una panchina collocata proprio di fronte al bar.
Dai suoi discorsi sembrava far venir fuori manie d’evasione, in particolare la sua scomoda compagnia che non gli permetteva di fare nulla di ciò che avrebbe voluto, e questo sembrava limitarlo.
Il tempo scorreva mentre mi confidava la sua noia momentanea, il suo “periodo no” ed io, che venivo fuori da una situazione difficile, barcollai tra il tentativo di comprensione e la mia condizione psicologica momentaneamente inadatta ad occuparsi dei problemi altrui.
Così un’altra chiamata di Alessandro mi tirò fuori da una situazione scomoda, espressione per cui non vorrei far scaturire l’impressione di essere superficiale e, rispondendo, dissi un pronto quasi liberatorio:
- “Pronto?”
- “Dove sei?”
- “In piazza, ho appena finito una birra tu?”
- “Girati, ti vedo “
La chiamata terminò all’improvviso, mi girai e lo vidi mentre mi spiegava a gesti di raggiungerlo per incamminarci.
Giorgio capì chiaramente che dovevo scappare e mi confessò la sua volontà di tornare a casa, così proseguimmo insieme per la strada mentre raggiungevo la compagnia e, dopo aver percorso la via somigliante ad un lungo corridoio che accompagna dalla piazza Dante alla piazza Nuova, scomparve nel buio di un viottolo.
Mi aggiunsi agli altri come un fiumiciattolo affluente e ci dirigemmo verso una meta che ancora sconoscevo.
Alessandro emerse dal suo silenzio e propose:
- “Ragazzi andiamo al comune!”
- “Perché al comune?” risposero all’unisono alcuni
- “Perché ci sono gli “spazzini” sul tetto”
- “Cosa? Davvero?”
- “Sì. Sono lassù in segno di protesta perché non ricevono lo stipendio da mesi”
Accogliemmo con favore la proposta e mentre ci eravamo incamminati in direzione del luogo deciso, io riflettevo, silenziosamente.
Arrivammo sul posto, però ciò che trovammo non fu neanche lontanamente ciò che ci aspettavamo di vedere, perché i netturbini erano schierati dall’altra parte del tetto che dalla nostra postazione non riuscivamo a vedere, così, un po’ delusi a causa della nostra mentalità da cortile quasi verghiana, scendemmo nuovamente e qualcuno propose di andare al Belvedere.
Luogo affascinate, questa sorta di balcone che dà sulla strada proveniente dalla piazza, ha un non so che di romantico, di riflessivo, con la visione di tutta la piana di Catania e compreso nel prezzo, l’enorme quadro dell’Etna, il vulcano attivo più grande d’Europa.
Il muro che fa da sostegno a quest’enorme balconata, crollò nell’82, causando una vittima, ma venne ricostruito e gli anni sembravano dimostrare che era agibile e sicuro, mentre a me dava sempre l’impressione che potesse crollare da un momento all’altro.
Sembravamo la trama di un libro per ragazzi: nove amici, le sigarette e la mariglia.
Mentre attendavamo Alessandro e Stefania, che intanto si erano diretti verso un garage dove la custodivano, osservavamo da lontano il Museo, un’enorme costruzione, uno scrigno contenente meno della metà dei reperti archeologici ritrovati a Ottavia, il mio paese.
Lo scrutavo attentamente, poggiato su quella ringhiera e costatavo che la notte dà un’accezione diversa a tutto ciò che guardiamo: una luna dalla flebile luce che, a volte, trasforma tutto ciò che tocca, tutto ciò che investe.
Fu proprio una sensazione strana, un fremito che dà un nodo allo stomaco che mi diede l’idea:
- “Ragazzi, andiamo lassù!”
- “Lassù dove?” mi rispose qualcuno incuriosito
- “Nel tetto del Museo, scommetto che la maggior parte di voi non ci va da una vita”
La mia proposta venne accolta con favore e con un certo entusiasmo da “scuola media”, quella di novità, di strappo alla regola tipica degli adolescenti.
Noi non lo eravamo più però… qualcosa in quella serata ci stava riportando indietro nel tempo e nessuno sembrava scontento di ciò.
Molte delle persone con cui ero, sedevano accanto a me nelle classi delle scuole medie e molti invece erano amici, quelli che rimangono sempre, che ricorderai a vita e che incontrare di nuovo ti fa vivere un senso di spiacevole consapevolezza del fatto che il tempo passa e si cresce… cazzo si cresce.
Partimmo decisi verso quel tetto che era diventato il luogo mistico di una serata che stavamo per spacchettare, una sensazione nuova, un’esperienza apparentemente banale ma che mi avrebbe fatto ricordare quella notte per tutta la vita.
Dopo aver superato l’ostacolo “Scale del Belvedere”, ci ritrovammo nel bel mezzo della strada, verso una nuova serie di gradini che sono però molto particolari: accanto a quelli in pietra, sulla sinistra, una decina di quadri scandiscono e descrivono la via crucis e questo aveva un non so che di curioso, perché quella piccola via tra gli alberi la maggior parte di noi l’aveva di certo affrontata decine di volte nel periodo pasquale ma adesso la situazione era “leggermente” diversa.
Arrivammo davanti al Museo, lo osservammo quasi con riverenza come fosse animato, vivo, chiedendo con gli occhi il permesso per poter accedere al suo tetto e, ovviamente senza averlo ottenuto, prendemmo la rampa di scale che affrontammo con coraggio e con tanta forza di volontà: avremmo dovuto scalare circa quaranta metri.
Sbucati fuori dall’ultimo angolo, ecco la piazzola che fa da terrazzo, una distesa di circa cinquanta metri quadri dove non c’è nulla, a parte telecamere non funzionanti, fili sparsi qua e là ed una vista mozzafiato sulla valle che sta sulle pendici di Ottavia.
Alcune cose più di altre avranno un ruolo da secondo protagonista nel corso della serata: in primis le staffe di ferro poste a terra che, già a primo impatto, sembrarono promettermi pericolo.
Qualcuno inciampò già sulla prima, ignaro della presenza di altre sparse per il tetto e fra risate, battute e con un po’ di fortuna nell’evitarne altre, ci adagiammo sul muretto che ci stava di fronte.
Un’organizzazione quasi maniacale si impossessò di chi stava per girare i primi due sigari alla mariglia: quasi non diede agli altri il tempo di sedersi, che già Alessandro uscì di tasca un piano per riporvela, tirò fuori dal giubbotto un pacco di cartine Smoking ed estrasse da un sacchettino la mariglia.
Allo stesso modo Freddy, che concentrava metà della sua attenzione a sistemare cautamente la mariglia nel piano per poi girarla nella cartina e l’altra metà agli occhioni dolci di Anastasia.
Anastasia è una mia parente lontana.
La schizofrenica, bonaria follia, che trasmette può essere percepita solo tramite un contatto ravvicinato, una serata trascorsa con lei, anche solo pochi momenti ed è lì che ti accorgi veramente di quanto sia vario il mondo, di quanti caratteri diversi comprende e di quanto, persone come Anastasia, ti diano la consapevolezza che il sorriso è tra i più bei doni che ogni uomo ha, in questa bella vita.
Un libro semiaperto, una ragazza che fa trasparire spesso le sue emozioni, tradita da quei suoi enormi occhi, specchio della sua anima e di conseguenza spia innegabile della sua condizione emotiva.
Per chi la conosce, non è difficile scorgere i suoi pensieri: per me è praticamente un gioco da ragazzi notare anche il minimo dettaglio, considerando che la mia infanzia è stata legata indissolubilmente alla sua.
Stefania è una riccia per eccellenza, dico così perché non si dovrebbe cadere nell’illusione che il riccio sia tutto uguale.
I suoi capelli sembrano creati uno per uno e danno una bella impressione di cura ed eleganza oltre che di candida morbidezza.
Stefania riesce a trasmettere un incredibile senso di tranquillità, quella giusta… che in un certo senso le invidio, soprattutto considerando la mia attuale condizione psicologica.
Parla poco, ma il necessario e questo le permette di ricevere una certa considerazione perché se parla non è mai per un motivo banale, ma giacché la sua parola in quel contesto è utile, a volte fondamentale.
La risata non le manca mai ma si nota in modo più che evidente quando il suo sorriso è richiesto dalla situazione e quando invece è il suo cuore a suggerirglielo.
Con Marina abbiamo frequentato insieme le elementari.
Ciò che ti colpisce a prima vista di lei sono i suoi occhi verdi, profondi come il mare e la sua particolarissima voce che sembra sia sempre sul punto di esaurirsi e che, devo ammetterlo, è veramente difficile da descrivere a parole; inoltre un’incredibile finezza del suo viso le dà un qualcosa di “ borghese”.
La ricordavo molto diversa, molto più altezzosa ma devo dire che rincontrarla mi aveva fatto chiaramente capire che conoscere una compagna di elementari e poi perderla di vista per troppo tempo, mi aveva dato una visione troppo distorta della realtà delle cose.
Anche lei, come Stefania, non parla molto, si limita oltre ad intervenire in qualche discorso, anche a riempire quei vuoti che non dovrebbero esserci e questo le conferisce il ruolo di un piano in un complesso pop: un accompagnamento ben fatto, raramente seguito da parti soliste, che spesso non servono per esaltare il suo suono splendido.
Rossana è il tipico esempio della ragazza–animatrice.
La sua è una presenza perforante nel corso di una serata, perché in qualsiasi discorso vuole esporre la sua idea e confrontarsi con quelle degli altri: parlare, fare una battuta qua e mandare affanculo scherzosamente qualcuno di là.
Ciò che fa trasparire è una bifronte schizofrenia, divisa tra nervosismo e relax ed un’euforia che trasmette in tutte le sue movenze e i suoi comportamenti.
Un tipo molto strano per fratello, ovvero uno di quei ragazzi che vivono il loro mondo senza preoccuparsi di quello che calpestano con i piedi, in breve, un artista, sembra averle trasmesso un po’ della sua follia.
Alba è un personaggio da incorniciare, descrivere in un libro da far conoscere in tutto il mondo o, a seconda dei punti di vista, da nascondere nei meandri più oscuri di un’abitazione abbandonata.
La seconda ipotesi è riferita al “moralista per eccellenza” che considera ogni esperienza, ogni bevuta, ogni momento che ci ha portato a vomitare su di un vecchio muro, solo ragazzate.
Sono pienamente d’accordo nel considerare, com’è giusto che sia, la via dell’alcool e dell’erba… come delle esperienze che non devono essere incoraggiate o pubblicizzate, che devono rimanere nell’ambito di casi isolati della vita e non porsi a bastione della felicità, perché non è questo il mio scopo.
Però giudicare chi queste esperienze le ha vissute, beh è un eccessivo e guastante moralismo che non concepisco nemmeno lontanamente.
Il mio non è un elogio al divertimento più sfrenato ma una presa di posizione a difesa di momenti che nella vita ci sono e fanno parte di quel bagaglio di esperienze che poi vanno a creare ciò che sei, ciò che farai e ciò che penserai, il tutto… Responsabilmente.
Io ho fatto le mie esperienze e grazie a queste, che mi hanno fatto soffrire, gioire, star male, star bene, credo di potermi sentire più vicino ai miei figli, se ne avrò, sapendo con che forza dar loro una sberla, con che tono alzare la voce e con quale affetto dare una carezza.
Torniamo ad Alba.
Sentirla parlare trasmette la sensazione che nel gergo romano corrisponde a “Scialla”, “tranquillità” e questo, se non sfocia nell’eccesso, è veramente un buon punto di partenza per non farsi sopraffare dalla paranoia e dai troppi pensieri che a volte ci invadono.
Alba si gode la vita, con tutto quello a cui questa può portare però non nasconde una grande profondità, un’immensa comprensione e capacità di ascoltare.
Freddy, sguardo affascinante secondo le impressioni che ha destato tra le ragazze, perché ovviamente, per quanto possa essergli affezionato, il suo fascino non è tra gli aspetti che colgo a prima vista, è un esempio vivente della vita goduta e ancora da godere.
Quando però il momento si fa serio, si può contare sulla sua incredibile predisposizione all’ascolto ed alla piena supremazia psicologica che ha acquisito anche grazie alle compagnie di ragazzi più grandi che ha sempre frequentato da una certa età in poi.
Infine Stefano, occhi blu anche lui, con numerosissime lentiggini a coprirgli il volto ed un’andatura molto rigida, quasi meccanica.
Tipo scherzoso, ma parzialmente introverso, ha addosso la << marca del 1991 >>, una generazione che credo rimarrà per anni insuperata dalle successive, per un motivo che ancora adesso non riesco a capire ma che in fondo ha la sua risposta nella nascita di generazioni sempre più tecnologiche, avanzate e superficiali: non era il meglio, ma sarebbe di certo stata il “meno peggio”.
Ricordo molto poco comunque di lui dal punto di vista più stretto di un semplice compagno di scuola.
Insomma eravamo in nove, nove compagni, paracadutati sul tetto di un museo a parlare del passato, del presente e dell’incerto futuro ma senza limitare il contatto solo con chi avevamo di più stretto tra quei pochi, anzi, essendo tutti amici d’infanzia, non notavamo minimamente un distacco che prima di quella serata sembrava palese.
Credo che il bello della vita stia proprio in occasioni di ritrovo come queste, dove si mette da parte l’abitudine e si sperimenta la novità.
Alessandro accese il primo sigaro che diffuse su tutto il tetto un piacevolissimo aroma di vaniglia con una quantità abbastanza consistente di fumo e, senza perdere tempo, anche Freddy utilizzò l’accendino per dar fuoco al secondo.
Riflettevo su quanto il nostro bel paese avesse una quantità di passato inversamente proporzionale alle possibilità di un bel futuro, che sembrava affievolirsi sempre più, destinato a scomparire.
E forse in un certo senso le colpe sarebbero ricadute su di noi, sulle nostre generazioni che non stanno facendo nulla per cambiare questo stato di cose, ma che sono parzialmente giustificate dall’impossibilità di proporre un’alternativa.
Ciò che ogni giovane chiede a Rena è semplicemente il diritto di sentirsi tale, con la possibilità di creatività che porti a progetti, a idee nuove, ad eventi, per rendere vivibile un paese che senza tutto ciò rischia di morire nell’immagine, troppo comune in Sicilia, di una via deserta e di qualche anziana vestita di nero ad osservare da dietro una tenda.
Comunque la riflessione fu superata con un momento di silenzio… nuovi discorsi, argomentazioni, si crearono in maniera naturale, portando uno dei nove ad aprire una nuova parentesi.
- “Sapete, in questa vallata dicono sia seppellita una statua, l’imponente statua di una Venere che non è stata portata alla luce perché avrebbe creato troppi disordini, trovandosi nel bel mezzo delle strade che conducono qui in paese”
- “Davvero? Non ne avevo mai sentito parlare”
- “Non lo sanno in molti e comunque chi ne è a conoscenza la prende come una leggenda e niente di più”
E quindi starebbero lasciando un oggetto di immenso valore tra la terra di una vallata per i soliti interessi urbani?
Sì, lo hanno fatto, qualora fosse una verità accertata.
Il nostro è un paese che porta migliaia di anni di storia con sé.
Per certi aspetti, è naturalmente esposto a determinate credenze, leggende legate al passato di dominio romano, che affascinano e molto.
Tutta la serata sembrava scandita dal tempo in modo molto bizzarro, passando da un momento in cui tutti e nove ci trovavamo a confrontarci su un argomento, a parlare di qualcosa, ad un altro in cui il silenzio prendeva il sopravvento, un silenzio che tutti affrontavano con un sorriso, segno di un consapevole benestare: anche il silenzio è da godere pienamente.
Il sigaro, dopo un lungo giro, arrivò nelle mie mani e feci un paio di tiri, aspirando profondamente, consapevole che stavo tornando nel mio mondo, nella mia vera vita, quella di un cantastorie che si ritrova tra gli amici pronto ad immortalare un momento che rimarrà a vita nel suo cuore: ciò che non capivo era se quel mondo a cui stavo tornando mi mancasse.
Poi riflettei… <<Sì, decisamente>>.
Precedentemente, il cervello capiva ma il cuore no, adesso invece l’equilibrio si stava riappropriando del mio corpo e mi rendevo conto che anche il cuore cominciava a comprendere pienamente, ad essere cosciente.
Con il tempo si capisce, e osservando il tutto ci si comincia a rendere conto che, nello stesso modo in cui ci si ritrova catapultati in una situazione sentimentale, beh, allo stesso modo si vien fuori e si comincia a ricostruire tutto quello che si è buttato giù, se ciò è accaduto; in caso contrario non sarà necessario ricostruire ma semplicemente abbattere qualcosa che fino a quel momento c’era stata e adesso era necessario non ci fosse più.
Parlammo del più e del meno, fin quando i discorsi cominciarono ad accavallarsi e il tono delle nostre voci, senza accorgercene, aumentava vertiginosamente.
Freddy aveva messo troppo a dura prova la sua vescica e improvvisamente si alzò, decidendo che era il momento di soddisfare ogni suo bisogno e lo osservammo tutti nel silenzio, mentre si allontanava lentamente dalla nostra vista.
Il buio, mentre si allontanava, lo nascose e potevamo ormai solo sentirlo, udire i suoi passi che si susseguivano con regolarità, fin quando questa venne interrotta da un metallico “Dooon”: avevo appena beccato in pieno una delle aste piazzate nel pavimento e poi ancora un’altra.
Riuscii a non finire “faccia in giù” per ben due volte.
Mi assalì nuovamente la sensazione che avevo avuto nella serata con Eva: sembrava ancora che io corressi troppo forte ed il tempo lì ad inseguirmi, a cercare per lo meno di raggiungermi, anche solo per un momento.
Eravamo in nove, eravamo amici, stavamo bene.
Dopo aver fatto qualche altro tiro al sigaro color cuoio, Freddy non mi chiamò, né fece il minimo cenno per attrarre la mia attenzione, ma io istintivamente, non so come né perché, mi girai verso di lui che mi porse automaticamente il sigaro con un sorriso.
Il gesto del “passare qualsiasi cosa di fumabile” è incredibilmente frainteso e svuotato del suo significato al giorno d’oggi: credo che, in origine, fosse un segno di vicinanza, fratellanza.
Insomma una visione molto Marleyana…
Questo nostro bizzarro e curioso mondo, in cui anche le cose più profonde vengono investite in pieno dalla superficialità, segno di una società che va avanti con un ritmo esasperato, ci vuole appigliati alle piccole cose per renderci unici e per sentirci parte di un qualcosa, elementi di un vecchio stampo che ormai non fanno più e che rischiano, giorno dopo giorno, di rendersi “come gli altri”.
Rischiamo di farci omologare e siamo consapevoli di questo, ma è necessario e ripeto, necessario, far uscire la nostra vena distintiva, sentirci speciali, perché ognuno di noi lo è.
Così, finiti i fuochi d’artificio, decidemmo di tornare alla vita degli esseri normali e ci incamminammo verso le scale per scendere dal tetto.
Attraversammo quei pochi metri come nell’attesa che qualcuno prendesse ancora in pieno le famose aste e, mentre prevedevamo questo, un ormai conosciuto “Dooon”, tuonò improvvisamente: Anastasia non si era minimamente preoccupata di ciò che avrebbe potuto investire con i suoi piedi e, come ognuno di noi, aveva pensato
<<Dai, siamo in nove! Tra tutti, dovrei beccarla proprio io?>>.
Beh, sì… l’aveva beccata proprio lei.
Arrivammo nelle scale ed iniziammo a scendere, uno per uno, ogni scalino fino ad arrivare a terra.
Risalimmo la scalinata della via crucis, dove adesso le immagini sacre avevano il giusto ordine e ci avviammo, con passo regolare, in una delle due piazze.
Alessandro e Rossana, appena arrivati, decisero di prendere un gelato e si avviarono verso il bar che però stava quasi per chiudere, così, grazie alla confidenza che ci permette il vivere in un paesino, la barista fece uno strappo alla regola e preparò i due coni.
Tornarono verso di noi che ci eravamo accomodati in una panchina per rimetterci in sesto dopo la lunga ed estenuante camminata e rimanemmo immobili e silenziosi, tanto da trasformare in un vero e proprio “frastuono” le leccate sul gelato che, senza quel silenzio, sarebbero state impercettibili.
Dopo qualche minuto il gelato era finito e con esso anche le sigarette e la mariglia, inoltre cominciava a subentrare un sonno devastante che io, stranamente, sentivo più degli altri, così decidemmo di andare a casa.
Salutai tutti e accesi lo scooter che avevo parcheggiato lì vicino, non osando guardare lo specchietto, uno di quei tanti specchi che mi circondavano.
di Fabio Privitera
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