Iridi e arcobaleni (Ivory)
Quella creatura era diversa da tutte le altre della sua specie.
Usciva di notte, quando nessuno poteva vederla, non le piaceva essere osservata, era schiva e solitaria. Nel bosco avvolto dall’oscurità si arrampicava sugli alberi con l’agilità di un felino, saliva sui rami, sempre più in alto, voleva toccare la luna, ma era sempre troppo lontana. Rimaneva a contemplarla per ore e immaginava come sarebbe stato bello guardare l’Oasi da lassù. Alle prime luci dell’alba tornava a rifugiarsi nel suo nascondiglio, nessuno sapeva dove fosse.
L’Oasi era un buco nero ignoto al mondo. Un paradiso di arbusti e piante sconosciute, un mondo incantato e senza tempo, abitato da un popolo di creature antropomorfe, simili a folletti, spiritelli mitici e buffi, gli Akumba. I loro corpi erano esili e ricoperti di squame lucide, avevano enormi teste, occhi piccoli e senza colore. Ivory, invece, aveva grandi iridi nere, splendenti, misteriose come le profondità degli abissi, paurose come l’Apocalisse. Erano avvolgenti.
Appena nata, sua madre rimase sbalordita nel vederla. Capì subito che era straordinaria, doveva proteggerla. Era rara! E questo l’avrebbe resa invisa al resto della tribù. Lei stessa ne era vagamente spaventata, la sua piccola era fuori dal comune, era speciale. Nei suoi occhi risplendeva la luce delle tenebre.
La sua eccezionalità si manifestò presto. Aveva capacità extrasensoriali, tra la telepatia e la chiaroveggenza. Scandagliava l’animo, percepiva sentimenti, avvertiva dolori ed emozioni dei suoi simili, come se fossero propri. Per questo tutte le altre creature la consideravano figlia del Male, riusciva a scrutare nel loro precipizio inconscio fino a svuotarlo, ed esse ne erano atterrite. Rubava la loro essenza e se ne nutriva, accrescendo sempre più il suo “dono”.
Il suo nome era Ivory ma nessuno lo ricordava, la chiamavano tutti “La strega del bosco”.
Odiava quell’appellativo e odiava il dono. Avrebbe voluto essere come gli altri, seriali e omologati.
Trascorreva la quasi totalità del tempo da sola; era introversa, sensibile, ma superba e sprezzante. Sentiva questa forza oscura dentro di sé e la temeva, come tutti gli altri. Tutto la turbava, tutto la feriva. Ogni sua cellula soffriva del male altrui, ogni fibra del suo corpo si dannava per i patimenti che assorbiva dall’esterno.
Gli Akumba si riunivano ogni mattina alla Fonte in una sorta di comunione spirituale e, attraverso dei riti propiziatori, invocavano la protezione delle loro divinità boschive. Ivory se ne stava sempre in disparte, nessuno voleva incrociare i suoi occhi e rischiare di esserne rapito, né lei desiderava prendere parte a quei culti che considerava inutili. Il dono era solo una maledizione, degli dèi non le importava alcunché. Indifferente, li ascoltava intonare canti all’unisono, mimetizzandosi nella fitta macchia verde.
La sua unica compagnia era la solitudine, quella fottuta bastarda era sempre accanto a lei, a ricordarle il suo misero destino di reietta. Col tempo aveva imparato a cavarsela da sola. Sovente, quando tutti si allontanavano, andava a specchiarsi nella Fonte, nell’immagine riflessa sperava di intravedere la sua anima, ma non vi scorgeva nulla, tanto da convincersi di non averne una.
Era dotata di un’incredibile sensibilità e compassione, seppure apparisse fredda e impassibile, una maschera di ghiaccio, per non soccombere a quel vortice di percezioni che pesava sulle sue spalle come un fardello immane, risuonandole assordante nella testa.
Poteva udire ogni più piccola emozione, scandagliare fobie, interpretare sogni, sviscerare passioni e afflizioni. Era come se succhiasse l’anima di chi si imbatteva nel suo sguardo vitreo. Udiva tutto, ma non aveva mai sentito se stessa.
Una notte, mentre si aggirava pensierosa nel bosco, avvertì una presenza. Si guardò attorno circospetta, ma non vide nulla. Poi, all’improvviso, come un bagliore. Una nuvola luminosa. Quell’ombra di polvere e luce le si avvicinò, Ivory tremò di paura e di stupore… nessuno osava mai appressarsi a lei.
Le sfiorò il viso e lei smise di tremare, quel tocco caldo ed affettuoso le aveva infuso una serenità sconosciuta. “Ho visto che spesso di notte vieni a sederti qui. Perché lo fai?” le domandò l’ombra, accovacciandosi al suo fianco. Aveva una voce profonda, maschile . “Come fai a saperlo, mi stavi spiando? E, comunque, non sono fatti tuoi” si trincerò, Ivory, dietro l’altura della sua consueta diffidenza, ma allo stesso tempo incuriosita da quelle attenzioni. “Sì, ti osservo da parecchio, forse da una vita, forse da secoli… ti meraviglia?” sorrise lo spettro misterioso. “Non hai paura di me?” rispose lei con un’altra domanda.
“Perché dovrei?”
“Perché tutti ne hanno, qui”.
“A me sembra che la più spaventata sia tu. Da tutti e soprattutto da te stessa. Sei tu quella che scappa e si nasconde… ecco, dimmi, da cosa fuggi, esattamente?” rilanciò l’essere di polvere.
Ivory rimase in silenzio a riflettere. Scappava da se stessa, pensò, ma rimase attonita. Si voltò verso di lui, era sparito. Pensò di essere matta, o forse era solo un’allucinazione, un’altra manifestazione dei suoi poteri occulti.
Da allora “Lui” tornò puntualmente ogni notte a farle compagnia, su quell’altura nascosta tra gli arbusti. Trascorrevano ore a parlare, poi si guardavano negli occhi, si avvicinavano, lei chiudeva le palpebre e sognavano. In seguito, nel silenzio più dolce di quelle notti luminose, tornavano a veder e rimirare le stelle.
Qualunque cosa fosse, lo spiritello sbucato dal nulla, riusciva a leggere nel suo animo, nessuno sapeva comprenderla meglio di lui, in realtà nessuno ci aveva mai provato. Ivory non capiva perché fosse così interessato a lei. I loro discorsi erano avvincenti, vivaci, riusciva a farla sorridere. Non conobbe mai il suo nome e da dove fosse spuntato. Non le importava saperlo. Lo chiamava “Drago”, perché le aveva spiegato che dalle sue parti era così che si chiama un amico… e, poi suonava bene! Aveva la voce di un flauto.
Drago sconvolse la solitudine dei suoi giorni con la passione e l’energia dirompente che emanava, sapeva leggerle dentro come neppure lei aveva mai fatto. Entrò nella sua anima in punta di piedi, la accarezzava con le parole, la abbracciava con il suo affetto.
Ivory non si era mai sentita importante per nessuno. Percepì per la prima volta di aver trovato un amico.
Le insegnò a leggere e scrivere, all’Oasi nessuno sapeva cosa fossero le lettere. Imparò in fretta, lei stessa ne era meravigliata, le riusciva naturalmente, forse era un’altra manifestazione della sua singolarità. Lui la prendeva in giro “Te lo avevo detto che sei una creatura straordinaria! Ti svelo un segreto: sei una fata. Altrimenti perché mai sarei qui adesso?”.
La notte del suo compleanno, Drago le portò un regalo, era una penna, una sua piuma. “Prendila, diventerà magica nella tue belle manine. Potrai scrivere le cose che provi, tutto quello che tieni nascosto al mondo e ti sentirai forte”, sentenziò lui. Ivory la prese tra le mani, scettica: “Non saprei cosa scrivere, non provo nulla, se non ciò che vedo riflesso negli occhi altrui, io non ho sentimenti miei” cercò di spiegare lei.
Drago emise una risata fragorosa a quell’affermazione. “Tu hai un universo immenso dentro di te. Per questo sei nata con il dono. Per questo sono qui. Non devi rinnegarlo, né temerlo. Accoglilo, accettalo, raccontalo… o ti divorerà. In te vedo la luce, la fiamma, l’energia, nascoste sotto una coltre di solitudine e inerzia. Liberati, o perderai te stessa. Esci dall’oscurità, fata, torna a rivedere la luce, impara a volare. Ti insegnerò io, sono qui per questo. Non aver paura, ti terrò la mano, lassù”.
Drago sembrava non capire. Lei non aveva mai provato ad esplorare le sue stanze segrete, troppo buio, troppa solitudine. Occorreva coraggio e lei non ne aveva abbastanza… Lei non si credeva speciale, era solo una strega visionaria.
“Tu sei molto di più. Sei strega e fata, oscurità e luce accecante, sei veleno e antidoto, caverna nascosta e spazio immenso. Tu puoi essere tutto, Ivory, io vedo la tua potenza devastante e la vedrai anche tu” le sussurrò, toccandola con la sua zampa. Poi l’abbracciò, e infine la baciò per svegliarla dal suo torpore. Le squame si irrigidirono, si raddrizzarono per l’imbarazzo, o forse era estasi. In quel lunghissimo, umido istante Ivory sentì l’anima di Drago trasmigrare nella sua. Si permearono, e si trovarono dentro le loro oscurità in un unico avvolgersi.
Da alcuni giorni, Drago era sparito. Lei lo aspettava ogni notte fino all’alba, ma di lui non v’era più traccia. Ivory era disperata, lui era stato il suo migliore amico, anzi, proprio l’unico. Che fine aveva fatto? Come poteva fargli sapere che le mancava… voleva che ritornasse. Quella creatura, lampo e polvere, o qualsiasi cosa fosse, le aveva fatto credere di essere magica, l’aveva solo ingannata e all’improvviso era evaporata nel nulla?! Non riusciva a darsi una spiegazione…
Una di quelle notti, arrovellandosi nell’interminabile e vana attesa, Ivory prese la penna di Drago e, come se fosse un pugnale, iniziò ad infierire sul foglio immacolato. Scrisse senza fermarsi più, le parole fluivano inarrestabili e copiose. Tutta la sua rabbia, la delusione, la speranza e la disperazione erano in quelle pagine che pulsavano di vita. Erano sangue, erano gridi di vita, erano lacrime per lui.
Ogni notte tornava al suo rifugio, al chiarore della luna, e scriveva senza sosta. Si liberò dei suoi demoni e trovò pace. Quella creatura piccola e fragile scoprì la vastità del suo animo, la forza devastante delle sue passioni, la bellezza cosmica che aveva dentro. In lei tutto era stato solitudine, in lei tutto diventava gioia e amore. Era ancora più bella, emanava luce e splendore. Drago era per sempre in lei. Vi cresceva, rifulgeva in una nuova vita.
Tornò a specchiarsi nella Fonte sacra, vide se stessa come se fosse la prima volta. Gli occhi, dapprima spaventosi, erano ancora giungle selvagge e impervie, ma affascinanti e soavi. Forse Drago aveva ragione, lei un tempo remoto aveva davvero sepolto dentro di sé la vastità del Tutto. Non si sarebbe più nascosta, non avrebbe più temuto se stessa. E del mondo là fuori… beh, francamente, non gliene importava nulla.
Drago l’aveva accompagnata per mano nel labirinto dove mai si sarebbe avventurata da sola e in quel complesso dedalo di vicoli e sentieri polverosi aveva ritrovato la ragione del suo esistere. Sperava di rivederlo ancora e sentiva che sarebbe accaduto, prima o poi… Doveva accadere!
Una notte di luna piena, alzò gli occhi al cielo. Vide un bagliore, simile ad un asteroide che trasvola, che attraversava a velocità costante la volta celeste, illuminando il bosco. Sentì il suo cuore rallentare, le tremarono i polsi. Le labbra si schiusero in un sorriso. Era lui, lassù. Era lui, il suo fuoco… dentro e fuori di lei. Inarrestabile come una tempesta. L’aveva stravolta, l’aveva ricreata.
Ivory era poesia, lo era sempre stata. O forse era una fiaba. Lui vide che lei ce l’avrebbe fatta da sola, ma non avrebbe mai smesso di vegliare su di lei, la sua fata, dagli occhi terrificanti. Ma solo lui sapeva che le sue grandi iridi, ormai erano gli occhi di un drago, erano arcobaleni.
Ilaria Di Leva
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