Non vi crescevano i girasoli
Da dieci anni mi sforzavo inutilmente. In quel terreno avrei potuto seminare di tutto, e qualsiasi pianta sarebbe cresciuta, poderosa, vistosa e persino ridente. Ma non i girasoli. Dopo qualche mese, seccavano sempre. Maledetti!
La villa era ubicata in una località amena, in mezzo a una natura rigogliosa e il sole vi risplendeva come se fosse sempre primavera. Si vedevano il mare e il vulcano, vi si respirava aria salubre, la vastità della valle dava un senso di eternità. Tutto era incantevole. Era il posto adatto per un ospizio.
Da qualche anno mia madre e mia zia erano sole. Ormai vecchie e logore, abbastanza attempate, decisi di “concentrarle” in quel luogo, che tra l’altro amavano, per non far loro pesare una solitudine mostruosa. Tanto erano sorelle e si sarebbero capite. Non era facile gestirle, poiché erano logorroiche, insopportabili, ma in un modo o nell’altro avrebbero vissuto lassù in quel colle l’ultimo loro tempo fino alla “scomparsa”, che prima o poi sarebbe avvenuta. Ma erano querce, e probabilmente avrebbero seppellito me.
Io abitavo in mansarda, in grazia di dio, loro invece dormivano al piano terra, nella stessa stanza attigua alla cucina. Di fronte ai loro letti avevo posizionato un televisore ciascuno, dotato di cuffie, in modo tale che mamma e zia potessero guardare programmi diversi senza dover litigare e senza dover sentire l’audio dell’altro apparecchio di intrattenimento senile. A entrambe avevo dato un radio ricetrasmittente per chiamarmi in caso di bisogno. Lo so, avrei potuto mettere un videocitofono, ma la radio ricetrasmittente era più comoda. Almeno io la pensavo così.
La zia, benché più giovane di mia madre, era completamente rimbambita. Si era sposata pochi anni addietro con un uomo più anziano di lei, che presto era morto. Da lui aveva ereditato una villetta in un’isola, come diceva lo zio Lillo “in un’isola circondata dal mare”. Posto stupendo e incontaminato. Lei non avrebbe mai più rivisto quel posto. Ma io sì.
A luglio, reclutavo una “straniera”, la piazzavo come badante in casa e me ne partivo beato per quella terra, a godermi il sole e il mare. Alle vecchie dicevo che per qualche giorno mi avrebbe sostituito quella giovane che io chiamavo sempre con lo stesso nome “Luna”, nonostante di volta in volta fosse una ragazza diversa. Luna per me e per loro era mia sorella… Loro ci credevano sempre. La domestica mercenaria, infatti, le chiamava “mamma” e “zia”.
Durante tutto il corso dell’anno, io mi occupavo della loro sopravvivenza e delle loro gioie. Demiurgo e linfa vitale. Con me si ricreavano, ero il loro buffone, ma anche cuoco, giardiniere, accompagnatore. Ero l’ultima fase del loro destino.
Ogni tanto le portavo in paese, in piazza. Facevamo una passeggiata fino a una panchina, si sedevano, guardavano la gente viva che chiacchierava, e sorridevano. Io ghignavo guardandole mentre esalavano gli sprazzi terminali di dolci sospiri. Poi le riaccompagnavo a casa. Le facevo accomodare nel divano del salone, accendevo la stufa, le coprivo con un plaid e stavano ore davanti alla televisione. Me ne ritornavo su in mansarda e leggevo. Erano stagioni morte, per me e per loro, ma nessuno aveva voluto occuparsi di loro. Solitudine e vecchiaia, bambine inermi. Fu un enorme sacrificio, ma dovetti farlo.
A mia madre non piacevano i girasoli, io invece li adoravo. Ogni anno compravo qualche piantina e la introducevo nel terreno, sperando che mettesse radici. Ma per una maledizione incomprensibile non raggiungevo mai il mio scopo. Morivano al sole che dava energia.
Era un maggio bellissimo. La temperatura all’ombra superava i venticinque gradi. Quel giorno provai a piantarne due, fusti splendidi, piccoli, lucenti, che avevano suscitato in me un desiderio di rivalsa, passando da un vivaio. Sembrava che volessero vivere.
Mia madre mi guardò piantarli. Biascicò qualche parola – ormai riusciva a emettere solo frasi incomprensibili, come sempre. Io non capii niente e continuai a scavare. Li volli interrare in un angolo del giardino, sempre esposto al sole, al riparo da ogni possibile vento.
Da allora era passato un anno. Mamma e zia erano scomparse da quel giardino da qualche tempo, volate in chissà quale cielo, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra.
La luce del giorno era intensa, il sole riscaldava come se fosse davvero una stella. Mi accovacciai vicino alle due piante, innaffiando lentamente. Di fronte miravano un mare luccicante. Erano girasoli immensi.
Joe Oberhausen-Valdez
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