Racconti brevi

IL MOLESTATORE

di Nicola Furia

 

«Brigadie’, c’è una signora che deve sporgere denuncia, la faccio salire?».

La voce gracchiante dell’interfono scosse il brigadiere Fulco dal dormiveglia in cui galleggiava indolente, in un limbo senza tempo, perso tra vicoli bui e malfamati, accarezzato da sguardi lascivi di volgari prostitute senza volto, brutalmente illuminate da neon intermittenti. Sollevò svogliatamente la testa dalla scrivania e sbadigliando gettò uno sguardo all’orologio. Mancava solo mezz’ora alla fine del turno, pensò bestemmiando, solo un’altra cazzo di mezz’ora e sarebbe evaso da quell’inferno denominato “ufficio ricezione denunce”. Che poi, in verità, era tutto tranne che un inferno; si doveva solo attendere il malcapitato di turno al quale avevano svaligiato casa, danneggiato la macchina, lanciato ingiurie, diffamazioni o chissà cos’altro; ascoltare quindi con noia i suoi sfoghi e compilare i moduli previsti per l’inoltro di denunce o querele negli uffici della Procura, dove si sarebbero accatastate in montagne di fascicoli polverosi che nessuno avrebbe mai scalato. Tutto sommato un comodo ed insignificante lavoro burocratico, peccato che fosse tutto il contrario delle aspirazioni malate del brigadiere Fulco, effettivo alla squadra anticrimine del Reparto Operativo. Per quella testa matta il paradiso era un coacervo di inseguimenti, pneumatici stridenti nell’asfalto rovente, proiettili vaganti, tintinnio di manette, cadaveri sgozzati o imbottiti di piombo, sirene spiegate, cazzotti nei denti, schiaffi in faccia e calci nelle palle. E lui sguazzava nella melma fetida come un cigno galleggia in acque limpide e cristalline; quella e solo quella era la sua vita, il resto solo un’arida esistenza che si intervallava tra un arresto e l’altro, inutili momenti da vivere in apnea prima di rientrare in azione. «Questo lavoro è troppo stressante e rischia di farvi perdere il contatto con la realtà», aveva esordito qualche settimana fa il giovane tenente fresco di Accademia al quale avevano assegnato il comando della squadra, un ragazzino con in testa l’arte della guerra e la bocca che puzzava di latte. «Per cui ho deciso che a turno svolgerete una giornata di servizio all’ufficio ricezione denunce. Potrete così parlare con persone normali, non solo con puttane e spacciatori, e vi interesserete dei comuni problemi dei cittadini». “Che bella idea del cazzo”, aveva pensato Fulco mentre gli altri componenti della squadra sghignazzavano sornioni, “questo coglione è un genio, diventerà sicuramente generale!”.

«Posso entrare?», chiese la donna facendo timidamente capolino. Era una signora bassa e minuta di circa quarant’anni, pallida e affannata per le quattro rampe di scale affrontata appena prima di presentarsi al suo cospetto. Vestiva uno scialbo tailleur stinto che all’origine forse era blu notte, il classico vestito della domenica, solo che la domenica dell’esordio si perdeva nella notte dei tempi, e calzava un paio di scarpe nere, basse, modello monaca di clausura. Tra i lunghi capelli neri, morbidamente annodati sulla nuca, si notava l’impietosa comparsa di numerosi fili argentati che incorniciavano un volto insignificante, senza neanche un filo di trucco, non compariva nessuna ruga d’espressione… come se quella donna non ridesse o piangesse da anni.

«Prego, si accomodi», disse il brigadiere invitandola a prendere posto all’altro capo della scrivania. Mezz’ora… solo una maledetta mezz’ora! «Come posso esserle utile?», chiese dopo che la donnina si sedette compostamente. Fu in quel momento che per la prima volta ne incrociò lo sguardo spento sentendosi immediatamente proiettato in un baratro di tristezza infinita.

«Vorrei sporgere una denuncia per… molestia sessuale», rispose arrossendo, quasi sussurrando.

«Un uomo la molesta?», chiese l’investigatore mascherando lo sbigottimento. Chi mai avrebbe potuto molestare quell’essere etereo, quasi invisibile, incapace di suscitare alcun pensiero perverso o, quantomeno, erotico?

«Sì, brigadiere, ma non conosco il suo nome. Abita nel palazzo di fronte e la sua finestra è proprio davanti alla mia. Io vivo da sola e lui mi spia giorno e notte, ho sempre i suoi occhi puntati addosso, non posso lavarmi, spogliarmi, mettermi in libertà senza sentire il suo lurido sguardo addosso».

Fulco si stropicciò la faccia rassegnato, passandosi ruvidamente le mani sulla barba ispida. Cosa ci stava a fare lì? Perché doveva perdere tempo con stronzate del genere invece di pedinare quei narcotrafficanti a cui dava la caccia da mesi? Maledetto sia il tenente! «Ha mai pensato di chiudere la finestra?».

«Certo che ci ho pensato, ma non posso vivere reclusa tutto il giorno. E poi, anche se la tengo chiusa per ore, appena l’apro lui è sempre lì che mi perseguita con quello sguardo da depravato».

«E si limita solo a spiarla?».

La donna abbassò gli occhi, fissandosi imbarazzata la punta dei piedi. «No… mi guarda e si masturba, lo fa in continuazione, senza ritegno».

«Capisco… e in che orari questo si verifica?».

«Sempre, brigadiere, sempre! In qualunque ora del giorno. Pensi che ieri notte mi sono svegliata di soprassalto e sono andata in cucina per bere un bicchiere d’acqua, saranno state le tre. Ebbene, passando davanti alla finestra l’ho visto, lui era ancora lì! Si rende conto? Nel cuore della notte quell’uomo mi guardava e… si toccava! È un vero incubo, mi creda».

«Ha mai provato a farsi vedere alla finestra con qualche uomo, che so, un amico, un parente? Sa, questi maniaci quando si rendono conto che la loro preda non è sola e indifesa, solitamente spariscono».

La donna abbozzò un mesto sorriso conficcandogli addosso i suoi occhi malinconici. «Allora lei non mi ascolta. Non ho marito, né figli, non ho amanti e neanche amici e sono pure orfana. Non conosco nessuno in città a cui poter chiedere aiuto. Sono sola, sola da sempre».

“Sola da sempre… praticamente un’anima gemella”, pensò Fulco. Neppure lui aveva affetti, oltre al lavoro non aveva nulla, neanche uno straccio di vita. La strada gli era penetrata nella carne, sterilizzandone i sentimenti, tanto da renderlo scostante e anaffettivo. Nessun sorriso al risveglio e nessuna carezza al crepuscolo, Fulco viveva in una corazza di asfalto e i brandelli della sua anima erano sparsi e abbandonati tra sporchi cunicoli metropolitani. Non legò mai con i suoi colleghi impegnati a far quadrare i conti, risolvere i problemi dei figli, accompagnare le mogli al centro commerciale, contare i giorni che li separavano dalla pensione. Lui no, lui era un cane sciolto, un mastino della guerra e non aveva bisogno di nessuno, tantomeno di donne, le prostitute erano più che sufficienti a soddisfare i suoi bisogni bestiali. Solo da sempre e… sempre solo.

All’improvviso le mani della donna si aggrapparono alle sue scuotendolo da quei pensieri che si aggiravano nella mente come rabbiosi cani randagi, costringendolo a guardarla; e lui non si sottrasse all’abbraccio malinconico di quegli occhi infelici. «Non mi lasci alla mercé di quel porco, la prego! Se è vero quanto dice, basterà che stasera io mi affacci alla finestra insieme a lei e quell’uomo capirà che non sono sola e la smetterà di tormentarmi. Mi aiuti!».

«Va bene, signora, stia tranquilla, stasera verrò a casa sua e individuerò il maniaco». Le parole erano uscite da sole, come se le avesse pronunciate in stato di trance. Ma cosa gli era venuto in mente? Non era questa la procedura da seguire, avrebbe dovuto limitarsi a raccogliere la deposizione e passarla agli uffici competenti, ci avrebbero pensato loro ad identificare il folle segaiolo. Che diavolo, lui aveva cose ben più importanti da fare che perdere tempo dietro alle paranoie di una donnetta squallida. Ma oramai il danno era fatto e poiché nel suo codice sbirresco la parola data era sacra, all’imbrunire il brigadiere bussò alla porta della vittima.

«Prego, si accomodi», cinguettò la donna radiosa come non mai, «ho appena fatto il caffè, ne vuole un po’?». Al cenno positivo dell’investigatore riempì prontamente una tazzina, versandone subito dopo un’altra dose in un bicchierino di vetro, «ne bevo un po’ anche io per farle compagnia, pur se solitamente a quest’ora non lo prendo». Aveva una sola tazzina per il caffè… esiste un’immagine più nitida e spietata per descrivere la solitudine di una persona? E tutto in quell’appartamento trasudava desolazione, dalla precisione millimetrica con cui i centrini di pizzo erano posti sui tavoli, alla cura nell’avvolgere con fiocchi vaporosi le tende di stoffa alle finestre, alla lucidatura dei pavimenti; si evidenziava un’ossessione maniacale nel sistemare ogni piccolo dettaglio della mobilia come quando si aspettano ospiti importanti… un’attesa vana, lunga decenni. Il profumo di detersivi e deodoranti, poi, non riusciva a smorzare quell’odore aspro e stantio della tristezza, un odore rappreso in ogni angolo della casa.

«Lei avrà sicuramente già cenato, brigadiere, e l’avrà fatto in compagnia, altrimenti mi sarei permessa di invitarla a cena. Non per vantarmi ma sono una brava cuoca».

«Sì, ho già cenato», mentì Fulco pensando al panino untuoso imbottito di “lardume” che l’attendeva in auto per essere trangugiato nevroticamente durante un appostamento. «Mi faccia vedere la finestra di cui mi ha parlato», tagliò corto, sempre più desideroso di uscire dalla casa di Barbie per farsi ringhiottire dal regno dei demoni.

«Eccola!», disse prontamente la donna spostando le tende. «Guardi, il molestatore è lì come al solito che mi guarda», continuò indicando tremante la finestra del palazzo antistante, «è lì, sempre lì, un’ossessione!».

E Fulco guardò. E nell’osservare la finestra dirimpetto comprese quanto tormentato fosse il cuore della donna ed ebbe pena per la sua anima serrata alla speranza, sbarrata… come la persiana decrepita che stava ora mirando; un’anima sferzata dalla tristezza, arrugginita… come quegli infissi inchiodati; infranta… come quei vetri; una coscienza vuota… al pari di quel palazzo fatiscente e disabitato da chissà quanti anni che, in attesa di essere abbattuto, si ergeva desolato in mezzo al nulla, come un monumento alla follia, un mausoleo alla disperazione. Vide con sgomento le vie tortuose alle quali può instradare la solitudine, costringendo il viandante ad inerpicarsi in eremi così brulli e aspri dove solo la follia può farti sopravvivere, quella follia figlia dell’invisibilità che trasforma la voglia di essere desiderati in fosche allucinazioni. Davanti a lui c’era solo una finestra diroccata che si apriva su un pianeta deserto dove aleggiava il fantasma del molestatore immaginario.

E Fulco comprese quanto simile fosse la sua disperazione, parimenti inutile la sua esistenza… In quella finestra si rifletteva anche l’aridità del suo cuore nero dove ogni passione si era coagulata nelle arterie mummificate.

Fulco guardò e quando smise di guardare, si voltò verso la donna e le carezzò il volto, e lo fece con una dolcezza per lui aliena, di cui non si reputava più capace. Eppure quelle mani ruvide, incallite dalla violenza, ora si stavano posando delicatamente sulle guance smunte e tremanti.

«Lo ha visto?», chiese la signora con il volto rigato da lacrime silenziose che finalmente sgorgavano da condotti incrostati dal tempo.

«Sì», mentì nuovamente, «domattina andrò ad arrestarlo così lei non dovrà più preoccuparsi».

«Grazie, brigadiere!».

«Dovere. Ora mi piacerebbe assaggiare la cena che mi ha promesso».

Un’alba boreale illuminò il volto della donna che corse subito in cucina lanciandosi freneticamente tra i fornelli, nel mentre il brigadiere, dopo aver chiuso le ante della finestra, si sedette silenzioso al tavolo immacolato del soggiorno. Almeno quella sera due naufraghi, così diversi tra loro, avrebbero affrontato insieme un mare mai raggiunto da nessuna riva. Due reietti, invisibili, come ponti che non conducono a nessuna strada, colori opachi mai riscaldati da nessuna luce.
 

Nicola Furia

 


 


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