DEEP BLACK
di Caterina Schiraldi
Capitolo III
Jo infilò la vanga con forza nel terreno. L’incubo era stato rimosso. La fatica fisica lo aveva cancellato. Ecco perché aveva sempre amato lo sport. Diminuiva la sua irrequietezza. Escluso il nuoto ovviamente.
Ma forse quel giorno stava esagerando con lo sforzo fisico. Il sudore colava copioso lungo la schiena nuda e cotta dal sole. I muscoli bruciavano e la bocca era arida. Non avrebbe mai pensato che unirsi ad un gruppo di studiosi e archeologi in Egitto sarebbe stato così faticoso. Il suo amico Luca, italiano e studioso di storia egizia, lo aveva invitato a raggiungerlo, conoscendo la sua smania di avventure e movimento.
Ma lui era convinto che avrebbe trascorso le sue giornate alla scoperta degli incantevoli scenari egiziani e dei misteri che celavano, una specie di novello Indiana Jones sulle orme del Santo Graal, non di faticare e sudare spalando terra sotto un sole cocente e con quaranta gradi all’ombra.
Luca rise dell’occhiata truce che Jo gli rivolse, carico di risentimento e frustrazione. Mentre con una mano si detergeva il sudore che gli colava sulla fronte e finiva per fargli bruciare gli occhi.
“È inutile che mi lanci il tuo sguardo da tigre ferita! Credevi, forse, di poter impersonare l’Harrison Ford di casa nostra?”, lo derise lanciandogli una birra, “tieni qui, rinfrescati. Non sei un archeologo e non sei nemmeno un attore di Hollywood. Potevo metterti solo a lavorare come un qualunque manovale”.
“Grazie tante!”, fu l’ironica risposta, “come mai tu non sei qui a spalare con noi umili uomini di fatica?”, gli chiese afferrando al volo la birra che gli aveva lanciato e aprendo la lattina per tracannarla, stava morendo di sete.
“Perché io, a differenza tua che sei tutto muscoli e azione, sono un gracile e umile studioso di egittologia. A me spetta la parte noiosa della ricerca e catalogazione e a te quella dello scavo. Almeno finché non arriverete ad un punto delicato in cui dovrò per forza intervenire io. Con le mie manine d’oro.”
“Sei proprio un dannato bastardo”, lo apostrofò tra l’ironico ed il frustrato “ed io che ti difendevo dai bulli al collage. Ingrato! Forse potrei darti io stesso una bella ripassata, per raddrizzare quel tuo naso da pugile”.
Luca sollevò la birra che reggeva a sua volta, in segno di brindisi e scherno.
“Faresti meglio a risparmiare le energie per i lavori”, gli rispose di rimando, lanciando uno sguardo attorno, “e a tenere sott’occhio quello strano felino che ti sei portato dietro”, lo avvertì facendogli un cenno verso Napoleone.
Il gatto, infatti, si stava allontanando verso il limitare della fitta vegetazione che circondava il campo di lavoro.
“Accidenti a lui!”, sbuffò Jo, esasperato, “gli avevo ordinato di rimanere al chiuso nel camper, ultimamente non mi dà retta, se ne va spesso a zonzo senza di me”.
“Jo ti ricordo che è solo un gatto, non può…”, cominciò Luca, ma s’interruppe dopo lo sguardo con cui l’amico lo aveva trafitto. Chiaramente per Jo, quello, non era solo un gatto. Tirò su le spalle accettando l’ennesima stranezza del suo ex compagno di scuola. Jo era così, prendere o lasciare.
“Comunque cerca di recuperarlo”, lo sollecitò, “non è un bel posto quello verso cui si sta dirigendo, ci sono animali predatori da quella parte. Se ci tieni a quella palla di pelo ti consiglio di andare a riprenderlo”.
Non aveva nemmeno finito di parlare che Jo, tra un’imprecazione e l’altra, si era lanciato tra gli alberi alla ricerca del suo amico a quattro zampe. Luca scosse la testa e tornò a seguire l’evolversi degli scavi.
Jo rincorse Napoleone tra la fitta vegetazione della macchia verde in cui era andato a nascondersi. Il caldo e la stanchezza erano assurdi e cominciava a pensare che avrebbe volentieri staccato un pelo dopo l’altro al suo gatto per punirlo dell’ennesima fuga del mese.
Ultimamente era diventato proprio strano. Scappava appena poteva e tornava in orari assurdi, a volte dopo giorni e giorni trascorsi lontano da lui. In tanti anni non lo aveva mai fatto, non si era mai allontanato da Jo nemmeno nel periodo dei calori. Era sempre stato un gatto atipico, più umano di molti suoi conoscenti, più presente perfino dei suoi genitori. Ma le cose erano cambiate. Con un nodo alla gola Jo pensò che, probabilmente, data l’età avanzata, il suo amico si stesse preparando a lasciarlo per sempre. L’idea lo terrorizzava. Il fiato gli si fermò in gola.
Scuotendo la testa per allontanare il pensiero funesto e aumentando il ritmo dei passi cominciò a guardarsi attorno. E una sensazione di gelo gli penetrò all’improvviso sotto la pelle. Si rese conto che la situazione, le sensazioni e le emozioni che provava, erano troppo familiari.
L’aria opprimente per l’umidità gli mozzava il respiro. La quasi totale oscurità ne rallentava il passo e il fogliame abbondante che si scontrava contro il suo viso lo frustava, lasciandogli segni brucianti sulla pelle.
I peli sul collo si rizzarono all’istante. Il suo incubo notturno gli riempì la testa e fece aumentare di colpo il battito cardiaco.
Ricomparve la sensazione di essere osservato, seguito, in trappola.
Bloccato dall’ansia e da una sensazione di terrore crescente si paralizzò sul posto. Si guardò attorno cercando fra gli alberi di percepire o notare qualcosa di strano.
Niente. Solo alberi e oscurità.
Come mai era così buio? Era mezzogiorno ed il sole batteva alto e impietoso nel cielo terso. Perché tra quegli alberi sembrava di essere in piena notte e… dentro il suo incubo?
La ferita che aveva sul braccio cominciò a pulsare dolorosamente. Jo si guardò l’avambraccio e ricordò solo allora gli strani segni, simili ad unghiate, che si era trovato quella mattina. E di cui non conosceva la provenienza né la ragione.
In quel momento, la sua mente andò in fiamme. Un turbinio di pensieri e angosce gli riempì il cervello e immagini sconosciute di volti e nomi lo invasero ed esplosero con la forza di una bomba.
Gridò e si prese la testa fra le mani, inginocchiandosi sul posto. Il dolore era lancinante. La confusione assurda e poi… in mezzo al caos delle immagini convulse, comparvero loro. Come facevano da anni.
Occhi, occhi verdi e scintillanti, occhi bramosi ed inquietanti. Gli occhi di una fiera.
O quelli di una bambina?
Le immagini si sovrapposero e Jo gridò di nuovo per il dolore lancinante alla testa e per la paura.
Dalla fitta boscaglia, emerse un ringhio. Tentando di guardare attraverso il buio Jo scorse di nuovo quegli inquietanti occhi verdi. Ma stavolta l’immagine era reale, viva. Non una creazione della sua fantasia o del suo cervello febbricitante.
Il ringhio si ripeté più forte e Jo indietreggiò spaventato. Nel farlo inciampò in una radice che emergeva dal terreno e crollò supino di schianto.
Tentò di strisciare via, lontano dal cespuglio, mentre un’ombra lentamente emergeva dal fogliame.
Sentiva di essere inerme.
Il dolore lancinante al capo, la ferita pulsante al braccio e quell’immagine, familiare e sconosciuta al tempo stesso, gli scatenavano una specie di paralisi. Non riusciva a muoversi.
Un arto dopo l’altro, la fiera emerse dal buio. Le zampe lucide, nere e possenti. I denti candidi scoperti e ringhianti. Le fauci spalancate pronte ad aggredire. E, ovviamente, lo sguardo bramoso di quegli intensi occhi verdi era puntato su di lui. Sulla sua preda.
Il suo incubo era tornato. Ma questa volta era vivido, come solo la realtà può esserlo.
Ed eccola, infine, allo scoperto. Scura, possente, aggressiva, fiera come una regina e, soprattutto, letale.
La pantera del suo sogno era là, in tutto il suo splendore ed in tutta la sua pericolosità.
Ma c’era dell’altro.
Il suo sguardo era ipnotico, troppo presente e decisamente troppo umano.
Lo osservava con la lucidità che solo un essere senziente può avere.
Lo affascinava e lo terrorizzava al tempo stesso. Si perse per un attimo nei suoi occhi ipnotici e…
Il dolore al capo raggiunse picchi parossistici.
Jo cominciò a contorcersi per le fitte e nel contempo tentava di mantenere uno sguardo vigile sul predatore di fronte a lui.
Ma era in trappola. Era finito. Non aveva vie di fuga.
Tentò di gridare per chiedere aiuto ma anche la voce gli mancò. Dolore e terrore lo avevano annichilito.
L’enorme bestia avanzò ancora lentamente, come se stesse giocando al gatto e al topo con lui. Sembrava trarre piacere e forza dalla sua paura. Le zampe posteriori cominciarono ad abbassarsi. I muscoli a contrarsi. Stava per spiccare un balzo su di lui.
Come la scena già vista di un film, Jo colse tutto ciò come se fosse stato riprodotto a velocità rallentata. Osservò la bestia prepararsi ad assalirlo, ringhiare un ultima volta e poi…
Si avventò su di lui.
Questa volta non era un sogno. Sentì tutto il dolore dell’impatto, l’odore di selvaggio che l’enorme felino emanava e l’ineluttabilità della fine.
La sua morte era giunta.
Prima che la pantera infilasse i denti possenti nelle sue carni, un’ombra oscurò, per un attimo, la visuale di Jo. Napoleone era rispuntato dal nulla e gli si era seduto sulla pancia. Un debolissimo e fragile scudo fra le sue viscere e le fauci della pantera.
Jo tentò di cacciarlo via per proteggerlo ma il ringhio rabbioso della belva coprì il suo muto urlo disperato.
E poi fu il buio.
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