Rebecca
Salvatore trascorreva ore a giocare a pallone nei vicoli senza sole di via Tribunali. Aveva quattordici anni, a scuola non ci andava più da quando il papà era mancato. Doveva imparare un mestiere e iniziò l’apprendistato da un falegname amico di famiglia. Era il penultimo di sette figli, un fratello e quattro sorelle da maritare e poi c’era Francesco, di quasi otto anni. Vivevano con mamma Antonia dentro a un basso, di pochi metri quadri, con le pareti che trasudavano umidità, che li condannò tutti ad una cronica asma bronchiale. Per il resto il “vascetiello” era dotato di tutti comfort possibili per l’epoca, ossia quasi nulla. Era il 1959.
Succedevano cose strane in quella casa. Vi si erano trasferiti da poco; dopo la morte del marito, Antonia non poteva più permettersi l’appartamento a piazza Carlo III dove viveva dal giorno del suo matrimonio. Col suo esiguo stipendio di calzolaia dovette stringere la cinghia e sacrificare la portentosa famiglia in uno spazio angusto ma che seppe rendere accogliente e amorevole, come ogni madre sa fare. Ciò che accadeva di notte, però, era tutt’altro che rassicurante.
Da un po’ di tempo, quando calava l’oscurità e tutta la famiglia era ormai vinta dal sonno si udivano degli strani rumori, simili al pianto di una bambina. Si ripetevano spesso. Era una nenia lugubre e sinistra. Salvatore soffriva di insonnia da quando era morto papà Ferdinando e anche lui, come l’algida madre, sentiva quegli strani strepitii. I vicini non avevano figli, non riuscivano a spiegarsi da dove potessero provenire. Il solletico notturno li faceva litigare tra di loro, in cerca del colpevole furfante, le porte si chiudevano da sole, come mosse da un vento improvviso e inspiegabile, e sobbalzavano per lo spavento.
Sasa’ aspettava che gli altri, terminati gli schiamazzi, si addormentassero e si alzava di soppiatto dal letto per iniziare a perlustrare la zona. Non trovò mai nulla, forse era soltanto frutto della loro immaginazione, pensò. Una di quelle notti, incapace di chiudere occhio, decise di prepararsi una tazza di latte coi suoi biscotti preferiti, quelli al cioccolato, che Antonia teneva da parte solo per lui, che mangiava pochissimo, un giovane Pinocchio viziato, goloso di dolci. Salì sulla sedia per prendere il dolce pacco dalla credenza e in silenzio preparò sul tavolo il goloso banchetto notturno. Prima di consumarlo, decise di andare al bagno, non ce la faceva più a trattenerla. Pochi minuti dopo, al suo ritorno, i biscotti erano spariti. Si grattò vigorosamente la testa, il sonno doveva avergli giocato un brutto scherzo, aveva soltanto pensato di prenderli senza farlo veramente… tornò alla dispensa e fece un nuovo rifornimento. Si mise a letto un po’ frastornato ma, almeno, satollo e soddisfatto.
Al mattino, Antonia preparava la colazione per tutta la banda, poi ciascuno prendeva la propria strada. Si sarebbero rivisti al calar della sera, di ritorno dal proprio lavoro. Sasa’ se ne andava alla botteguccia di Ettore ad imparare a lavorare il legno. Era bravo, naturalmente portato per quel lavoro, intagliava il legno meglio di un adulto. Ogni tanto pensava al suo papà, anche lui fu un falegname, sarebbe stato orgoglioso di lui. All’ora di pranzo se ne andava in giro per il quartiere e si fermava a mangiare le zeppolelle fritte di Donna Carmela che gliele teneva da parte, calde e sudice d’olio. Se aveva tempo passava dal barbiere a sistemarsi la folta criniera nera, la mattina si scocciava di pettinarsi e usciva di casa con il cespuglio ribelle e selvatico. Lo conoscevano tutti, nessuno gli chiedeva soldi, gli volevano bene, era un ragazzino speciale, schivo ma con gli occhi buoni. Quattro palleggi solitari e se ne tornava in bottega a lavorare. Sasa’ non aveva molti amici, era introverso, ma da solo si trovava perfettamente a suo agio.
L’episodio dei biscotti spariti si ripeté ancora. Decise che avrebbe scoperto l’autore dei furti… il piccolo Francesco o, più probabilmente, una delle giunoniche sorelle che fingendosi a dieta di giorno, finivano per strafogarsi di notte, in preda agli isterici morsi della fame… eppure, li aveva sorvegliati, ronfavano come dei porci nella stalla. Si aggirava nella cucina, avanti e indietro, non si dava pace. Portava delle pantofole enormi e nel suo andirivieni inciampò in una mattonella un po’ rialzata. Si accovacciò per cercare di aggiustarla e si accorse che non era l’unica fissata male. Le sollevò una ad una. Sotto c’era una botola. “Uh, Gesù bambino”, esclamò ad alta voce e si portò la mano alla bocca per tapparsela. Era pesantissima per le sue braccia smunte, ma riuscì a sollevarla. S’affacciò per guardare di sotto, c’era un cunicolo buio, gli sembrò profondissimo. Trasalì per lo spavento, richiuse la botola, rimise le mattonelle al loro posto meglio che poté e corse a letto, sperando di dimenticare. Tremò fino al mattino seguente, le botole erano materia da film horror… che ci facevano in casa sua?
“Sasa’, come sei pallido stamattina, non ti senti bene?” gli chiese Antonia, preoccupata dalla strana inappetenza del figlio, disinteressato ai dolciumi che aveva preparato apposta per lui, la mattina seguente. Non disse una parola, nessuno doveva sapere quello che aveva visto. Qualunque cosa ci fosse lì sotto, lo avrebbe scoperto da solo.
Quella sera stessa si avventurò nell’inferno sotterraneo. C’era una scaletta di ferro, si aggrappò con tutta la forza che aveva e s’impose di non guardare in basso, la discesa sembrava piuttosto lunga, temette di rompersi l’osso del collo. Arrivò fin giù in apnea, c’era una terribile puzza di umidità. Faceva freddo, forse calarsi in pigiama non fu una brillante idea. Va be’, troppo tardi per tornare indietro, si sarebbe arrangiato. Si ritrovò in una specie di enorme cantina, al centro campeggiava un altare tutto piastrellato con mattonelle da cucina, in giro c’erano foto e suppellettili di ogni genere. Sembrava un ambiente familiare, doveva trattarsi di un rifugio utilizzato negli anni della guerra per proteggersi dai bombardamenti, a Napoli ne esistevano innumerevoli. Intravide una galleria e si incamminò attraverso il tetro corridoio. Il rumore dei suoi passi riecheggiava, spaventoso. Notò che c’erano vari percorsi, uno spazio immenso. Sentì crescere l’inquietudine, doveva restare calmo e, soprattutto, cercare di orientarsi. Era piuttosto distratto, avrebbe rischiato di rimanere sepolto sottoterra, se non avesse memorizzato il percorso a ritroso. Camminava spedito, anche per tentare di riscaldarsi. Aveva il cuore in gola. Si ritrovò in una piccola stanza e pensò di svenire. Davanti a sé si stagliavano numerosi resti umani, ‘e capuzzelle. C’era profumo di morte. Una lapide attirò la sua attenzione, era quella di una bambina… aveva solo otto anni quando morì. Si chiamava Rebecca. Doveva essere bella, almeno così se la immaginò. Si voltò e alle sue spalle notò un’altra scala. Vi si inerpicò, arrivò in cima con il fiatone, la salita fu interminabile. Alzò piano il coperchio cigolante e sporse pochissimo il viso al di sopra, quel tanto che bastasse per capire se in superficie vi fossero le fiamme infernali. Non era l’Oltretomba, era una chiesa.
L’apertura nel pavimento era posizionata su un lato della navata, di fianco all’altare maggiore attorniato da simboli funerari, ossa e teschi, seminascosta dietro a un confessionale. Salvatore conosceva tutte le cattedrali della sua città, ogni domenica ne visitava una diversa. Riconobbe l’immagine di un teschio alato che decorava l’abside. Era la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, meglio conosciuta come la “chiesa delle capuzzelle”. Non poteva credere ai suoi occhi! Un cunicolo sotterraneo collegava quel complesso museale al suo infimo vascetiello!
Ritornò di sotto e ripercorse la strada per ritornare a casa sua. Camminò a lungo, non si era reso conto di aver precorso tanta strada. Quando riemerse nella cucina, erano le prime luci dell’alba. Un’altra notte in bianco, di lì a poco avrebbe dovuto prepararsi per andare alla bottega. Quella mattina era troppo eccitato e pensò di passare prima in libreria, doveva sapere tutto sulla storia di quella chiesa. Prese la bici e arrivò sotto l’arco di Port’Alba. Nella famosa libreria c’erano manuali antichissimi, di grande valore. Domandò a Peppino di dargli un libro “importante”, qualcosa di erudito, doveva studiare l’origine della chiesa. Peppino lo guardò da sopra gli occhiali. Il libro costava troppo, non se lo sarebbe potuto permettere. Arrivarono ad un congruo accordo: gli avrebbe permesso di leggere quello che gli interessava in cambio di una piccola riparazione ad uno scaffale mezzo scassato che Salvatore aveva visto entrando, dietro la cassa. Peppino annuì, conosceva suo padre, era un brav’uomo, glielo avrebbe consentito in ogni caso. Ma questo non glielo disse. Salvatore prese il testo finemente rilegato e illustrato su carta patinata e si sistemò su una sedia, nascosto nel retro. Prese a sfogliarlo con una certa riverenza, quasi fosse un testo sacro, e iniziò a trascrivere una serie di appunti su un taccuino che recuperò lì in giro. Non doveva tralasciare neppure un dettaglio. Apprese che la chiesa in questione era stata consacrata nel 1638 per volontà di un’Opera Pia, capolavoro dell’arte barocca, bla bla, bla… concepita su due livelli. Ecco, finalmente ci era arrivato: attraverso una botola si scendeva al livello inferiore, l’Ipogeo, concepito come una suggestiva discesa al Purgatorio. Quello era il luogo di culto delle anime “pezzentelle”. I credenti adottavano un teschio e se ne prendevano cura, come un talismano sacro, abbellendolo con gioielli, cuscini e altarini, pregavano per quel defunto, sconosciuto ed anonimo, per favorirne il passaggio dal Purgatorio alla Salvezza. Quando l’anima era ormai salva, avrebbe aiutato coloro che l’avevano protetta con le devote raccomandazioni, esaudendo le loro richieste. Un culto affascinante, ai limiti del paganesimo. Il resto era una descrizione minuziosa di tutto ciò che il ragazzino aveva visto la notte precedente coi propri occhi. Non trovò, però, nessun riferimento alla lapide di Rebecca. Si parlava di una certa Lucia, anima tanto amata dalla tradizione popolare, pare che la sua “capuzzella” fosse miracolosa soprattutto per le zitelle che andavano a pregare da lei per trovare marito. “Peppino, dammi un libro più importante, qua non c’è scritto quello che cerco”. L’uomo sorrise. Gli portò tutti i manuali che riuscì a trovare sulle cappelle di Napoli e sui culti esoterici della città. Salvatore li sezionò pagina per pagina, di Rebecca nemmeno l’ombra. Era così concentrato che non si rese conto che s’era fatto quasi pomeriggio. Guardò l’orologio e corse a casa, promettendo a Peppino che la mensola gliel’avrebbe riparata l’indomani. L’uomo sospirò, sarebbe rimasta rotta per chissà quanto tempo ancora. Si mise in sella alla sua bici e corse come se dovesse vincere una tappa del giro d’Italia. Arrivò a casa tutto trafelato, dalla piccola finestra scorse Antonia di spalle che lavorava alla montagna di scarpe, posizionata di fianco a lei. Cercò di ricomporsi alla ben e meglio ed entrò. “ Sasa’, dove sei stato? Mi ha chiamato Ettore, mi ha detto che oggi non ci sei andato in bottega. Che dobbiamo fare? Mi dici la verità e forse abbuschi? O vuoi inventarti una frottola e le prendi di sicuro?”
Salvatore non volle dire tutta la verità. La madre lo avrebbe menato in ogni caso, tanto valeva tenersi per sé il giro sottoterra e la storia di Rebecca. Disse solo che era stato in libreria per fare un piccolo lavoretto per Peppino e s’era scordato di avvertire il mastro. Antonia non distolse mai lo sguardo dalle suole rotte che stava riparando, gli disse solo di non mettersi nei guai, ne avevano già troppi. Se si fosse ripetuto un episodio del genere lo avrebbe sacramentato di mazzate. Per questa volta la scampò.
Non gli restava che una possibilità per conoscere qualcosa sulla storia della bambina sepolta nell’Ipogeo: interrogare don Giovanni, il parroco della chiesa. Stava lì da un paio di secoli almeno, qualcosa doveva pur sapere. Echecazzo.
Nel frattempo quella notte stessa decise di ridiscendere negli inferi della casa. Stavolta si sarebbe vestito in maniera adeguata, l’escursione termica della prima visita gli aveva procurato un fastidioso raffreddore. E si sarebbe portato pure dei biscotti, ad una certa ora gli veniva sempre fame. Si ritrovò di nuovo in compagnia delle capuzzelle, a guardarle bene, agghindate e polverose, non facevano neppure così spavento. Restò qualche minuto a fissare la lapide della bambina. Si intristì, era così piccola… si portò la mano alla bocca e affidò un amorevole bacio alla fredda pietra. Gli venne il solito languorino, cercò nella tasca e… i dolcetti erano spariti! Si girò intorno come impazzito… non c’era nessuno laggiù… o forse sì? Scappò via come un fulmine, senza mai voltarsi.
L’indomani, all’ora di pranzo, sacrificò le zeppolelle di Donna Carmela per andare a trovare il vecchio prete.
Dovette aspettare che finisse di confessare due bizzoche del quartiere che conosceva benissimo, le classiche tipe che si battono il petto davanti al Padreterno in croce e si trasformano in iene blasfeme appena mettono piedi fuori dalla casa di Dio. La cosa sarebbe andata per le lunghe, ma lui avrebbe aspettato tutto il tempo necessario. Si sedette su una panca in fondo alla chiesa a rimirare i prestigiosi affreschi che decoravano le pareti e il soffitto. Pensava, con la bocca spalancata, di fronte a tanta magnificenza, a quanto fosse bella la sua città, piena di misteri e di storia. Gli sarebbe piaciuto studiare archeologia o diventare un ingegnere… erano solo i sogni di un ragazzino nato troppo povero per permettersi di fantasticare. Una mano sulla spalla lo ridestò dalle sue illusioni. “Allora, Salvatore, come mai sei qui? Deve essere una cosa seria, stai aspettando da un’ora quasi!” sussurrò sommessamente Don Giovanni. Si sedette accanto a lui e ascoltò la storia del passaggio segreto e le domande sulla bambina sepolta a cui nessun testo ufficiale faceva riferimento. Il religioso confermò di conoscere quella storia e gli raccontò tutti i particolari. “ Devi sapere, Sasa’, che nella vostra casa, tanti anni fa, forse venti o più, viveva una famiglia molto povera. Rebecca era l’ultima di tre figli. Morì travolta da un’ambulanza, sbucò all’improvviso da un vicoletto mentre giocava con la palla. Una vera tragedia… Io la conoscevo, ero arrivato da poco in questa parrocchia. La domenica veniva sempre a messa con la sua mamma che, per farla stare buona, le comprava in pasticceria i dolciumi, di cui era ghiotta. E mentre celebravo la santa messa, la vedo trotterellare avanti e indietro a seminare briciole coi suoi biscotti, i fedeli la guardavano di traverso e si facevano il segno della croce ogni volta che incrociavano il suo sguardo. La tumularono lì sotto, perché non potevano permettersi la sepoltura in cimitero, le anime pezzentelle avrebbero vegliato su di lei. Nessuno volle aiutarli, la gente credeva che fosse una strega… si raccontava che Rebecca parlasse coi morti. Io a queste scempiaggini non ho mai creduto. Dopo qualche anno morirono anche i genitori e i suoi fratelli si trasferirono altrove. Tutte le persone che hanno abitato quella casa sono scappate via dopo pochissimo tempo… subivano strani dispetti, perdevano oggetti, pare che ogni notte il pianto della bambina riecheggiasse nelle mura domestiche. È rimasta disabitata per tantissimo tempo. Tua madre Antonia sapeva di questa leggenda, ma non poteva permettersi altro, era l’appartamento più economico che avesse trovato, per i motivi che ti ho esposto. Ecco ora sai tutto. A casa tua ce’ sta ‘o munaciello”.
Salvatore rimase sbigottito. Lo zio Filippo, un vecchio ubriacone, raccontava spesso aneddoti sui fantasmi di Napoli, lui non gli prestava mai ascolto, lo credeva pazzo. Era dunque Rebecca a rubare i biscotti e a farsi beffe dei suoi fratelli!
“ Uh Gesù. Don Giova’… e mo’ che facciamo? Ce ne dobbiamo andare pure noi?” domandò, preoccupato.
Il prete tentò di rassicurarlo “Non ti preoccupare, Sasa’. Dobbiamo temere i vivi, mica i morti. In fondo, non fa niente di male… vi tiene compagnia. Dimentica questa storia, vedrai che l’anima sua, prima o poi, troverà pace e non vi darà più fastidio”.
I dispetti notturni continuarono, così come le folate di vento improvvise e i furti di biscotti. Antonia continuava a far finta di nulla con i suoi ragazzi, aveva tante di quelle cose a cui badare, che il fantasma di Rebecca, a confronto, era una barzelletta. Era il 27 novembre, il giorno del compleanno di Salvatore. Antonia gli aveva preparato una crostata, se l’era meritata, era un ragazzo buono e gentile, iniziava a guadagnare anche i primi soldi con il suo lavoro. Il profumo di confettura di visciole invase tutta la casa. Sasa’ ne mangiò avidamente un paio di fette una dietro l’altra, la gola era il suo peccato mortale. Prima di andar via, ne mise da parte ancora una e la nascose dietro un vaso sulla credenza. Antonia lo osservò perplessa.
“Perché l’hai messa lì? Temi che Francesco la mangi tutta e ne hai lasciato un pezzo per stasera?” gli disse sarcasticamente.
“Quella è per lei… per Rebecca”. Antonia sapeva che Salvatore conosceva tutta la storia. Padre Giovanni le aveva raccontato della sua visita in chiesa, lei non affrontò mai il discorso col figlio, era un ragazzo posato, non sarebbe stato necessario tranquillizzarlo sulla vicenda. La donna accennò una smorfia, che pareva un mezzo sorriso, e lo lasciò andare.
Passarono dei mesi. La situazione peggiorò. Il pianto notturno teneva svegli tutti. Il solletico ai piedi lasciò il posto a schiaffi e spintoni invisibili. Dopo un primo momento di comico divertimento, nessuno rideva più. In quella casa non si poteva dormire. Ormai anche gli altri sapevano di Rebecca, fu impossibile per Antonia soprassedere a quei sinistri episodi, diventati ordinaria amministrazione. I figli la supplicavano di cercarsi una nuova casa, solo a Salvatore non importava granché. Era abituato a dormire poco e stranamente era l’unico esentato dalle mazzate del fantasmino. Doveva risultargli simpatico, forse per la singolare abitudine, ormai un rito quotidiano, di lasciarle i dolci sulla credenza!
Quel maledetto pomeriggio la vita della famiglia Esposito sarebbe cambiata per sempre.
Francesco, il piccolo di casa, era una peste senza pari, completamente refrattario alle raccomandazioni della sua mamma. Stava giocando con le macchinine, quando sentì il gelataio che stava passando con il suo carrettino. Corse fuori come una saetta. Fu un attimo. Un’ambulanza lo travolse, morì sul colpo.
Francesco ebbe la stessa sorte di Rebecca. Uno scherzo del destino, un’assurda coincidenza… una vendetta del monaciello ostile a chiunque avesse abitato quella che fu la sua casa e che era diventata tomba della sua anima, maledetta dalle genti. Antonia ne fu sconvolta, aveva perso il suo piccolo angelo… lasciarono quel luogo malefico nel giro di pochi giorni. Maledisse se stessa per non aver dato ascolto ai suoi figli. Salvatore, per qualche tempo, perse l’uso della parola. Aveva assistito a tutta la scena. Non riusciva a capacitarsi. Aveva provato subito una grande compassione per Rebecca, per lui il fantasma era diventato come un membro della famiglia… perché aveva permesso che accadesse una cosa così brutta? Non poteva vegliare su di loro come avrebbe fatto un angelo custode? Fu davvero una strega, come narrava la leggenda. Provò rabbia, un grande odio.
Trascorsero tanti anni. Salvatore era cresciuto. Riuscì a studiare e divenne un buon imprenditore, aveva avviato una fabbrica di falegnameria tutta sua. Poté permettersi una vita tranquilla e qualche piccola soddisfazione. Si era sposato e viveva in una bella casa al Vomero. Antonia non c’era più, gli mancava il profumo delle sue torte la domenica mattina, la sua tenera freddezza di mamma paterna. Tornò in quella casa dove aveva lasciato tanti bei ricordi, così tanto dolore… era rimasta sfitta da allora, nessuno volle mai più metterci piede. Decise di acquistarla, era da tanto che ci pensava… L’avrebbe ristrutturata e ne avrebbe ricavato un piccolo laboratorio di arte presepiale, che era la passione del suo papà. La prima cosa che fece fu dare una degna sepoltura a Rebecca. Non la odiava più per la morte di Francesco, l’aveva perdonata, era solo un’anima disperata, che mai nessuno volle ascoltare, a parte lui.
Forse, così, avrebbe smesso di vagare triste e sola fra quelle mura.
Una mattina, spicconando una parete, Salvatore trovò una sorpresa. Nell’intercapedine del muro era nascosto un pacchetto, legato con dello spago. Lo scartò, dentro c’erano tantissimi soldi. Non seppe mai come fossero finiti lì dentro. Né volle mai scoprirlo. Forse, fu il regalo di un’anima che aveva trovato un po’ di pace, l’ennesimo paradosso di una città avvolta nella leggenda, ammantata di magia ed esoterismo, eternamente divisa tra sacro e profano. Un arcano mistero fuori dalla realtà.
Salvatore socchiuse gli occhi e sorrise.
Ilaria Di Leva
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