L’irrilevante sorriso di Lisa
Era vecchissima, sicuramente più decrepita di quel che non apparisse. Eppure sembrava giovane. Aveva un sorriso mellifluo, una specie di ghigno, mi guardava enigmatica, misteriosa. La profondità dei suoi occhi mi atterriva. Mi scrutava di sbieco, statica, con quel suo sguardo insopportabile, a volte isterico, a volte passionale, impenetrabile. Sembrava una sfinge, eppure dietro di lei non c’era più il deserto, ma un fiume, o forse era un cortile. I capelli le scendevano sulle spalle, in posa come se fosse un quadro. Le sue mani a me apparivano eburnee, il viso sembrava scolpito nella pietra, imperituro, davvero immutabile per l’eternità. Solo il vento l’avrebbe potuta corrompere, scavando per centinaia di secoli, millesimo dopo millesimo, la sua effigie inalterabile.
Tutto attorno a lei sembrava immaginario, frastagliato, immersa in un’atmosfera medievale, indefinita, incerta, a volte spaventosa. Sembrava un demone che mi penetrasse. Mi sconvolgeva, e mi pietrificò. Restai per ore a guardarla. Non era bella, ma affascinava. Sarebbe stata il personaggio di una favola, una di quelle che mi narrava mio padre, quando nei pomeriggi assolati delle estati sicule si prodigava per far addormentare me e mia sorella. Aveva un aspetto vagamente temibile. Se avesse avuto una voce, sarebbe stata una cantilena, o una di quelle nenie che trasportano in tempi remoti, che hanno persino le sembianze dell’interminabile, che non si dimenticano più. Questa figura incantevole era davvero un’opera d’arte ineguagliabile. Era la Gioconda.
Me ne stavo per ore, fin da piccolo, coricato sul divano del salotto a leggere, soprattutto d’estate e la guardavo. “Quella donna” aveva un non so che di speciale, fissa e intensa, stava attaccata al muro di fronte a me, accanto ai fucili ad avancarica, e al vecchio lume rumeno. Aveva qualcosa di mistico, di pericoloso, mi squadrava sempre, anche quando mi alzavo e mi posizionavo in diversi punti della stanza. Lei era sempre lì coi suoi occhi semoventi che si spostavano per osservarmi. Mi entrava nel cervello. Non riuscivo a sottrarmi a quello sguardo intenso. Mi seguiva, mi perseguitava, notte e giorno, mi inquadrava nel suo mirino. Quel quadro era un cecchino.
Crescendo non la rividi più, ma un giorno ricomparve al Giardino dei loti. Mia madre aveva voluto portarla e appenderla lì, non so perché, forse come continuazione di un passato lontanissimo e in rappresentanza di un prolungamento temporale che fosse senza sosta. Quel ritratto avrebbe dovuto continuare ad accompagnarmi. E così avvenne.
Ogni giorno andavo nella villetta a innaffiare il viale e il giardino, aprivo la porta, entravo in casa e “lei” se ne stava di fronte a me, in fondo al corridoio, vicino al bagno. Era un po’ coperta da un enorme lampadario, che per la sua grandezza arrivava ad altezza uomo, in ferro battuto, costruito da mio nonno, ma la donna si vedeva bene lo stesso.
Un pomeriggio di fine maggio, mentre mi trovavo in quella casa, seduto sulla tazza del cesso, sentii vibrare tutte le mura. Pensai a un terremoto o al tremore dell’Etna, e mezzo nudo mi alzai per raggiungere il giardino. Per la velocità e l’ansia mi ruppi la testa su quel lampadario e caddi a terra. La Monna Lisa mi guardò e sorrise. Dopo un po’ mi svegliai.
La sala era grande, sembrava immensa, con vari quadri. Mi sentivo un po’ frastornato, la gente mi sembrò strana. Una ragazza mi si avvicinò e mi chiese se stessi bene. Ero sudato, un po’ di sangue mi usciva dalla fronte. Parlava un’altra lingua, sembrava francese. Però la capivo benissimo. Mi accompagnò alla toilette. Entrai ovviamente da solo, ma sarei entrato con lei. Cazzo se era figa. Aveva i capelli che si allungavano sulle spalle, lisci, quasi come la seta, due occhi penetranti che mi imbarazzarono fin da quando la guardai attentamente. Mi squadrava dalla testa i piedi, facendo finta di essere a disagio, come se fosse timida. Mi estasiò subito, a prima vista, mi sbalordì con il suo accento suadente. Aveva una voce calda e radiosa, emanava fuoco, passione. Era un torrente che sarebbe straripato in un’alluvione immensa, e mi avrebbe travolto con tutta la sua potenza. Sembrava la Gioconda. Rimasi come un ebete ad ammirarla, e pure lei si sprofondò nella stessa percezione. Rimanemmo imbambolati come due imbecilli. Poi entrai in bagno. Poggiai il chepì sulla tavola del water richiusa e mi ripulii del sangue. Avevo una bella divisa, mi piaceva, e fortunatamente non si era sporcata. Ma sulla fronte si notava una ferita che continuava a sgorgare materiale ematico. Tamponai con la carta igienica e uscii dal bagno. Lei mi aspettava fuori. Mi sorrise e mi convinse con ogni metodo possibile e a tutti i costi, cioè con due parole, di portarmi a casa sua per disinfettarmi il taglio. Io me ne sarei fottuto di ‘sta ferita ma farmi una passeggiata con lei mi aggradava assai. E così uscimmo fuori dal museo.
Il sole di quel maggio siculo-parigino risplendeva nella bellezza dei viali e dei giardini fioriti. Il cielo era terso e infinito, e come diceva Lisa: “comme toujours”.
Camminammo per un bel po’, attraversammo un ponte sulla Senna e arrivammo fino a Rue Mazarine. Lei abitava vicino al ristorante italiano Il Vicolo. Vi si mangiava una merda, almeno per lei che era francese. Io mi ci trovai benissimo. L’edificio era vecchio, o antico, abitava in una mansarda al quarto piano, senza ascensore. Le scale erano larghe e consumate dal tempo e dalle scarpe che vi erano passate per vari secoli. Lisa aprì la porta ed entrammo. La prima stanza, piena di libri in ogni scaffale, per terra, in una libreria incassata al muro, era la salle à manger, era anche una specie di salotto, studio, camera da letto, cazzo era tutto. Inciampai su un vocabolario. Lo raccolsi e mi accorsi che era di latino. Le chiesi che ci facesse con quel dizionario, una francese. Mi rispose che amava gli studi classici e che era una scrittrice. Poi mi accompagnò a una specie di abbaino. Ci affacciammo e guardammo fuori. Un sole travolgente ci abbagliava, ma il panorama non era granché. Di fronte si vedevano solo case e una via qualsiasi. Lei lo capì e mi disse: “ho un posto bellissimo e ti ci voglio portare”. Mi prese la mano, uscimmo dalla stanza e andammo sulla terrazza passando dal soffitto del caseggiato. I suoi stivali di similpelle calciarono e aprirono la porta. Da lassù lo spettacolo era meraviglioso. Ammirammo stupefatti la Senna e la veduta degli isolati medioevali del I Arrondissement. Poi mi lasciò la mano, mi guardò fisso e mi disse: “io vorrei volare”.
Temetti volesse provarci in quel momento, buttandosi di sotto. Lei intuì dalla mia faccia il mio sgomento e scoppiò a ridere. Rimanemmo in silenzio a goderci il panorama, poi vidi la sua espressione mutare, divenne pensierosa, infine triste. Mi appressai a lei, le sfiorai il collo con la punta del mio naso, simile a quello di Cyrano de Bergerac, aveva un profumo pungente, mi ricordava l’odore dell’erba appena tagliata, e la baciai. Rimase rigida come un cadavere, sembrava avesse smesso di vivere da tanto tempo. O che non fosse più abituata alle delicatezze di due labbra che si assaporano. Si lasciò trasportare da me e sentii che ricominciava a respirare. La ridestai dal suo millenario torpore. Si scostò dolcemente, mi sorrise, ancora una volta enigmatica, e la vidi sparire all’interno del caseggiato. Aveva un gran bel corpo, e, se fossi stato bravo, quella mattina avrei potuto possederla. Ma lei era una smorfiosetta, mi avrebbe fatto solo girare a vuoto per un po’. Si tolse le scarpe e si sedette su una vecchia poltrona di pelle marrone, io feci lo stesso. Prese a raccontarmi dei suoi scritti, della sua vita, dei viaggi che aveva fatto e di quelli che sperava di fare ancora. Era un fiume in piena, come se non aspettasse altro, ossia parlare con qualcuno, riversandogli tutto il suo animo, quella mattina, ossia proprio con me. In quel posto e allora.
Mi disse che viveva sola da troppo tempo, non aveva amici, le piaceva la solitudine della sua casa. O se la faceva bastare. Era una donna divertente, una francese con il sense of humour inglese, aveva vissuto per tanti anni a Napoli, ma non mi disse il perché. Io ero come ipnotizzato, il suo bel viso celava un mistero sconfinato. Anzi più di uno. M’insegnò un po’ di espressioni del dialetto partenopeo che aveva appreso durante la sua permanenza in quella città, doveva aver lasciato un pezzo di cuore laggiù, i suoi occhi si illuminavano a parlarne. Poi si alzò in piedi di scatto. Tutti i suoi movimenti suggerivano irrequietezza, passava dalla più dolce inerzia alla smania. Mi piaceva, la desiderai. Era sconfinata, intramontabile, estasiante, era il sostrato della passione. Emanava una luce abbagliante che sembrava sorgere dagli abissi di tutto quel che avrebbe voluto essere, e fra un po’ sarebbe stata: il voluttuoso brivido di due iridi che sprigionano fuoco e avvolgono ogni tempo andato e prossimo. Era il sublime, il mai assaporato, l’incanto di un sole che acceca e infiamma. Mi stava mandando al manicomio, cazzo.
Si spogliò e rimase nuda davanti a me… era semplice, era semplicemente… perfetta. Mi baciò la fronte e andò a farsi una doccia. Rimasi come pietrificato, una così non l’avevo mai intravista nemmeno nell’incubo più appassionante. Avrei potuto seguirla, assecondando il mio istinto primordiale, e averla. Mi sembrò una creatura innocente, eppure temibile, in qualche modo mi aveva spiazzato e rimasi impalato sul divano, come un vampiro annientato. Quando tornò era vestita di rosso, un lungo abito di chiffon le accarezzava la pelle diafana, era un sogno ad occhi aperti.
Avrei passato tutta l’eternità ad osservarla. Un’opera d’arte, irradiava sensualità e purezza, una creatura irreale. All’improvviso avvertii un forte dolore alla testa, quella stupida ferita pulsava, la vista mi si annebbiò e la figura di Lisa fu come avvolta da una coltre, grigia e opaca. Mi appare come un angelo, pensai, prima di perdere i sensi.
Aprii gli occhi. Mi sembrava di aver dormito per un secolo, o forse più. Doveva essere tardo pomeriggio, mi ritrovai seduto ai piedi di un altissimo obelisco, sollevai la testa per guardarne la sommità, era una statua dell’Immacolata. La osservai a lungo, ne fui rapito dalla marmorea austerità, il velo che ne copriva il capo mi parve celare l’immagine della Morte con la gobba e la falce in mano. Provai una sensazione terrificante. Intorno a me un brulichio rumoroso di persone. Non sapevo come fosse possibile… ero a Napoli, la riconobbi, del resto ci avevo vissuto per diversi secoli. La fronte mi faceva ancora male, ma la ferita sembrava essersi rimarginata. Ero spossato, decisi di entrare nella Chiesa del Gesù, almeno mi sarei riposato un po’. Mi sedetti su una panca, accanto ad una donna, inginocchiata a pregare. Non parlavo mai con Dio, forse era giunto il momento di farlo, almeno per chiedergli la grazia di farmi tornare a casa mia. Dopo qualche minuto la giovane si sollevò e tornò a sedersi. Si voltò verso di me e… era Lisa! Alla mia esclamazione lei sorrise. “In realtà mi chiamo Luisa, ma se preferisci puoi chiamarmi così”. Ero fermamente convinto che si trattasse della stessa persona, anche se la versione partenopea non aveva un abito di chiffon, ma un paio di jeans strappati e scarpette da tennis e mi sembrò più giovane. Era comunque strafiga. Come sempre. Le dissi che assomigliava ad una ragazza francese che avevo conosciuto… beh, tralasciai i particolari… Dal suo ghigno, appena accennato, capii che interpretò il mio come un obsoleto tentativo di adescamento. Parlammo, senza accorgercene, ad alta voce, e fummo malamente ammoniti da un sacerdote. Sgattaiolammo all’esterno, come due alunni indisciplinati messi alla porta dal professore. Alla luce, Luisa, o Lisa, O Monna Lisa, un retaggio atavico di un unico fato, l’incarnazione dell’Infinito e del Tutto, si rivelò nello splendore effimero. Era raffinata, proprio ipnotica.
Si portò una mano sul ventre. “Senti un po’… io ho una fame tremenda, ti va una bella pizza fritta?”. Annuii, senza batter ciglio. L’avrei seguita anche se mi avesse proposto una pantegana alla brace e ci incamminammo per le strade del centro storico. Lungo il tragitto mi raccontò di essere stata una studentessa di Lettere, doveva avere all’incirca trentacinque anni. Piena di entusiasmo, gesticolava, mi parlava come se mi conoscesse da sempre. Il calzone ripieno era la cosa più sudicia e buona che avessi mai mangiato, rovente ai limiti della fusione termonucleare. Il palato si avvizzì, perdendo la sensibilità. Nel frattempo, lei non smise un attimo di raccontarsi e mi confidò di sognare di trasferirsi a Parigi “Chissà, magari, un giorno, ci incontreremo lì…”. Ecco, stavo diventando pazzo. Non c’era altra spiegazione. Era forse un viaggio a ritroso nel tempo nella vita di una… eterna Monna Lisa.
Stava calando la sera, quando mi guardò con gli occhi vispi, quelli di chi ha avuto un’idea sensazionale e non avrebbe accettato un “no” come risposta. “Conosco un posto bellissimo, ti ci voglio portare”… ça va sans dire.
Prendemmo la funicolare, e arrivammo a Castel Sant’Elmo. C’era una vista meravigliosa lassù, tutta la città ai piedi di quell’altura. L’aria era più fresca, si strinse nelle spalle infreddolita e io istintivamente l’abbracciai per riscaldarla col mio fuoco. Ci sedemmo su un muretto a fumarci una canna, con le gambe che penzolavano nel vuoto. Io non ero abituato alla marijuana, tossivo come un cane affetto da collasso tracheale, ero piuttosto ridicolo e lei rise di gusto. ‘Sta disgraziata!
Dopo qualche tiro, iniziai a sentirmi rilassato e la ringraziai. L’adrenalinico fervore di qualche ora prima aveva lasciato il posto ad una languida tranquillità, mi parve serena, pensava a qualcosa di bello e rassicurante. “Vengo qui quando ho voglia di dimenticare, mi lascio alle spalle l’idea che gli altri hanno di me e resto “Io”. Sono tutti bravi a giudicare, a darti consigli, beati loro che non sbagliano mai… Non perdono, perché non rischiano. Non sanno cosa sia la paura, ma non conoscono nemmeno il coraggio. Io no, io ho il potere dell’Immaginazione. E allora guardo tutto da una vetta, dal cielo, dal sole, e nel pensiero mi fingo un gigante, sento che non c’è nulla al mondo che mi sia precluso. Sai qual è il mio problema? Non mi voglio abbastanza bene, ma lo so quanto valgo… devo solo imparare a volare”. Non compresi fino in fondo cosa volesse dire, ma l’ascoltai trasognato. Ci riuscirai, piccola Monna Lisa, potrai volare, pensai, stupito dall’ennesimo déjà vu. Brindammo con due birre scadenti, ma ci bastavano, non avremmo avuto bisogno di niente, neanche del piccolo chiosco ambulante che non aveva molto da offrire, ma almeno le bevande erano ghiacciate, e ci sentimmo due eroi in una qualsiasi odissea, pronti a cambiare le misere sorti del mondo con la nostra grandezza. Tirò fuori da una tasca dei jeans un cornetto rosso con la punta spezzata, il tipico portafortuna napoletano, e me lo porse “prendilo, è un regalo… dicono che la superstizione sia per gli ignoranti, ma la vita è una sorpresa giorno per giorno, è un’inspiegabile magia, un farmaco irrazionale per le anime sublimi. Unica consolazione alla quiete inerte e oscura. Sarà il tuo piccolo amuleto e ti ricorderà di me”. Era proprio speciale Luisa, era bella, un giovane mistero destinato a rimanere eternamente occulto. Dal suo sorriso e dalla sua voce, che fosse dialettale o francese, si propagava un terremoto inarrestabile. Era l’Ideale, imperituro, inarrestabile.
Mi sentivo fiacco, forse ero solo troppo vecchio per farmi di canne, mi girava la testa. L’ultima cosa che vidi furono le sue mani, le sue dita incrociate con le mie, sottili, perfette. Poi il buio.
Mi svegliai, ancora mezzo nudo, collassato sul pavimento, con il lampadario che mi pendeva sulla faccia e un corno napoletano stretto nella mano. La Gioconda era sempre lì, a fissarmi invadente. Non mi sembrò ambigua, era contenta. Mi sorrise. Ma questo è irrilevante. O forse no.
In fondo mica deve avere tutto un senso.
Ilaria Di Leva
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