Il palazzo del diavolo
Leggendo il romanzo, ossia in poche ore, poiché lo scritto cattura fino alla conclusione in modo semplice e scorrevole, si ha l’impressione che l’autrice non prenda posizione tra il Bene e il Male, quasi andando oltre, spesso sfiorando la celebrazione della realtà nefasta, un’esaltazione dell’Inferno sulla terra. Ma a ribaltare questo effetto intervengono l’intelligenza e il sorriso beffardo di una scrittrice che tramite l’ironia riesce a gestire la sua mano che si lascia trascinare in un turbine di sensazioni romantiche e a volte persino erotiche, quasi come se quel mondo, avviato alla decadenza e ottenebrato nella perdizione, fosse la danza del diavolo che tracima in un’atmosfera lussuriosa e sfrenata. Un attimo senza fine, in cui le sensazioni fisiche, le aspirazioni, le deliziose speranze di felicità e immortalità ammaliano, avvolgono uomini e donne trasportandoli in luogo metafisico, il baratro dell’annichilimento.
L’azione si svolge nel centro storico di Napoli, tra viuzze, chiese, gente del popolo, edifici vecchi e sontuosi, traendo spunto dalla leggenda “diabolica” del Palazzo Penne.
I dialoghi sono intrisi di quella genuinità che si può trovare solo tra personaggi di quartiere, di paese, che si conoscono da tempo immemorabile. Le forme dialettali di certe espressioni rendono viva e vera ogni pagina, tra le cui righe il lettore spesso si ferma a rileggere, a volte compenetrandosi con una “maschera” che cambia in funzione del momento e dell’archetipo da rappresentare, a volte ghignando per la spietatezza della narratrice, che spara ad alzo zero su alcuni attori maleodoranti di servilismo e mercificazione di animo e corpo, ma sempre sorridendo dall’alto della sua regia.
Il Diavolo nel libro non è il male supremo, è solo un contorno o un condimento. Il Male è l’uomo accecato da immortali desideri di passione effimere, ricchezze, lusso, potere, sesso e “zoccole” a iosa. Il metodo per raggiungere i benefici del grado e del benessere non hanno importanza, non ne hanno mai avuta. È una costante che si perpetua nel tempo, e né l’autrice, né il lettore possono cambiarla – e nemmeno lo vorrebbero. Hanno solo facoltà di descriverla e di leggerla, ovviamente gioendone.
Esiste una salvezza in quel mondo fittizio e in questo reale, connubio tra occultismo, immaginazione, realismo, malvagità, in cui anche lo stesso diavolo è dipinto con tratti sarcastici, nobili, superomistici?! Probabilmente no. Solo un barlume di speranza appare qua e là con le vesti dell’Amore, che poi si denuda nella sua più schietta sembianza, metamorfosi e bautta dell’egotismo, un solipsismo che si ritrasfigura velocemente, oggettivandosi come indiscussa e univoca alterazione del “volere” tout court. Il voler possedere.
Il libro è anche un omaggio a Napoli, ai suoi costumi, alla sua gente, alla sensualità che l’autrice effonde, sprigiona, e deflagra in uno stile schietto e attraente, che nasce e riluce all’ombra del Vesuvio. Una ridda che incanta.
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Joe Oberhausen-Valdez
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