Il ponte
Una mattina qualsiasi di un agosto qualsiasi. Anzi no, era il 14 agosto 2018.
Mi alzai presto per andare al mare, mentre fuori si scorgeva un pallido sole, che pian piano diveniva più caldo, sembrava annunziarmi una giornata spensierata. Avrei nuotato e usato finalmente il kayak, dopo una ventina di giorni passati immobile sul letto a dolermi di un mal di schiena che improvviso mi aveva atterrato e schiacciato a terra come un lurido scarafaggio. Un insetto mediocre e dozzinale, una povera bestia.
Caricai la canoa gialla sulle barre portapacchi della jeep, legandola con una meticolosità da paranoico. Mia moglie sistemò nel portabagagli un ombrellone, la borsa frigo, lo zaino verde stracolmo di oggetti inutili, che nella mia testa sarebbero dovuti servire in previsione di un evento negativo.
Non lasciavo niente al caso, la mia sicurezza e sopravvivenza dovevano essere sempre al di sopra di tutto. Ero un tipo preciso, pignolo, forse anche esagerato. Predisponevo tutto alla perfezione, dal tragitto all’ora di partenza e arrivo. Tutto calcolato, tutto asettico, tutto perfetto.
Dopo un rapido controllo alle gomme e all’auto, partimmo.
Abitavamo alle pendici dell’Etna, ma sarebbe potuto essere il monte Reixa, un’altura da cui dominavo con lo sguardo le valli sottostanti. Adoravo tutto ciò che si elevava al cielo, le altezze, il brivido della quiete che suscita ogni panorama.
Il giorno precedente ci aveva raggiunto un amico pugliese che si era sobbarcato dodici ore di autobus da Terlizzi per passare un po’ di tempo con noi. Michele era un ragazzo idealista e intelligente, uno di quelli che credono ancora in chimere. Era infermiere, insegnava a giocare a scacchi ai bambini, amava i dischi in vinile, scrivere racconti incomprensibili. Ma in tutto ciò che faceva metteva l’anima, aveva cuore. Raggiungemmo l’autostrada, percorrendo quelle vie intasate dal traffico che dal colle portano a valle. Avremmo raggiunto il mare in circa quaranta minuti, immersi in una calura estiva e rovente che in auto ci faceva soffocare. Io odiavo l’aria condizionata e quindi non l’accendevo. L’unica possibilità di refrigerio era data dall’aprire i finestrini, ma non entrava una brezza rinfrescante, solo un fuoco che ci arroventava e faceva sudare ancora di più. In auto si moriva.
La circonvallazione si congiungeva con l’autostrada che conduce al litorale. Io stavo attento alla guida, in silenzio, tuffato in un vigile controllo dei veicoli che ci sorpassavano indisciplinati da tutte le parti. Ero lento, non mi piaceva la velocità su strada, e in ogni caso non potevo accelerare perché la canoa sul tetto vibrava tantissimo con un rumore insopportabile che quasi mi diceva “cazzo rallenta”. Ogni tanto mi voltavo alla mia destra verso Michele che discorreva con Gabri e Fabio, un ragazzo di diciotto anni, il nipotino, arrivato da qualche settimana dalla Germania per trascorrere le ferie con noi.
Tutti amavamo il mare, l’estate, la natura che circondava il territorio rigoglioso di piante tipicamente mediterranee. Eravamo allegri perché di lì a poco ci saremmo tuffati in acqua, liberandoci da quella arsura umida e appiccicosa.
Spesso dovevamo incolonnarci in una fila unica, perché d’estate c’erano lavori sulla carreggiata, operai che si massacravano a ricostruire chilometri infiniti di una strada stracolma di buche rattoppate come se fossero fori di una camera d’aria di bicicletta, e invece erano avvallamenti e baratri. Vedendo questa incuria mi veniva da bestemmiare, pensando a uno Stato bastardo che spende milioni di euro per costruire edifici effimeri, tunnel e ferrovie interminabili, scavando profondissimi monti, per far sì che mezzi mostruosi e inutili possano solcare a velocità straordinaria da un punto a un altro del continente per motivazioni inafferrabili, ma per alcuni chiare e decisive, che hanno come scopo finale fantomatiche necessità imprescindibili, diletti estemporanei, profitti singolari. E mentre guardavo quella strada di merda, attraversando gallerie che avevano l’apparenza del crollo improvviso; mentre percorrevo quei ponti sospesi quasi sull’infinito, rumorosi, vecchi, logori, pericolanti, vittime di impresari e politici senza scrupoli, che si arricchivano coi soldi pubblici, e solo a questo miravano, pensavo… già, pensavo che questo mondo meraviglioso, unico, caduco faceva schifo solo perché retto e guidato da una certa congrega maledetta, e un malcostume sproporzionato lo aveva reso tale. Il cambiamento… sarebbe stato impossibile e persino inutile in questo putridume, senza pene e senza meriti. Un corpo stracolmo di virus, delirante e marcescente nella sua cancrena.
Superate le prime gallerie, l’aria cominciò a cambiare, divenendo più fresca, il cielo ghignò nero e minaccioso, colpendo la macchina con una pioggia inaspettata e fortissima. A stento vedevo la strada. Stavamo percorrendo un viadotto altissimo che si ergeva spaventoso al di sopra di alcune case e magazzini. Lo conoscevo benissimo, poiché in estate lo attraversavo spesso, ma con quel diluvio riuscivo a decifrarne i contorni solo malamente. Aveva le fauci dell’abisso. Feci in tempo a frenare, ma non del tutto, quando mi avvidi che alcune auto davanti alla mia si arrestarono senza preavviso e scomparvero ancora più velocemente “tuffandosi” in una voragine immensa e disumana. Schiacciai il pedale del freno alla perdizione, pressandolo come un forsennato, ma non cambiò nulla. Vidi solo un camion verde che alla mia destra era riuscito ad arrestare la sua corsa, e un uomo che correva a ritroso, verso la salvezza. Poi volammo in quella cavità, gridando e forse piangendo. L’impatto al suolo fu spaventoso. Eravamo ancora vivi, ci contorcevamo, rantolavamo.
Sentimmo sirene provenire da lontano, elicotteri sorvolare la zona; vidi uomini vestiti di arancione che si arrampicavano fra quelle macerie, e d’un tratto persino un bellissimo cane da soccorso che procedeva sospeso su una corda. Ma poi ogni Luce si spense. Niente più sorrisi, niente più colori. Un’enorme massa di cemento e acciaio, “azionata” dall’incuria, dalla disonestà, dalla cupidigia di uomini in carne e ossa, ci schiacciò come vermi.
Eravamo piccoli, eravamo scarafaggi.
Joe Oberhausen-Valdez
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