FANS

Épos

 

 

”I sing of power, magic and might
a sonnet of pure victory.
A hymn to the fearless, the savage, the brave
the spirit of our liberty”

D. DeFeis

”Nonno, nonno?”

”Sì, dimmi caro…”

”Non riesco a dormire, raccontami una storia!”

”Volentieri, vai a prendere il libro delle fiabe.”

”No, non una di quelle. Voglio una storia vera! Raccontami di quando eri ragazzo…”

”Va bene, va bene. Preparati allora, mettiti comodo: ti porterò indietro con me in un lungo viaggio nel tempo…”

 

Fra il tempo in cui Atlantide venne inghiottita dagli oceani e il sorgere dei figli di Aryas, vi fu un’epoca selvaggia ed oscura oltre ogni immaginazione. Falsi profeti soggiogarono le menti degli uomini allontanandoli dagli antichi Dei. Neri sacerdoti officiavano riti blasfemi obbedendo al volere di deformi entità. Il mondo era sprofondato nel caos, trascinato in un gorgo di violenza e distruzione. Regni caddero, le città bruciarono una ad una soggiogate dall’avanzare delle legioni. Macerie e rovine,  ecco ciò che rimaneva. Cadaveri e schiavi sui quali regnavano incontrastati neri tiranni senza anima e senza cuore. Noi fummo gli ultimi: gli ultimi uomini liberi, gli ultimi custodi del segreto e della disciplina dell’acciaio. Crom era il nostro dio e il metallo era il suo verbo: nostro unico credo. Ci ergevamo impavidi di fronte al nostro destino, feriti ma non domi. Leoni circondati da avvoltoi impazienti di consumare il loro macabro pasto. Discendenti di una stirpe antica e fiera, non ci saremmo inginocchiati di fronte a nessuno. Saremmo morti da guerrieri, con la spada in mano lottando fino all’ultimo uomo. Nessun ripensamento, nessuna esitazione: esaltavamo il coraggio e disprezzavamo la viltà. I nostri inni di guerra avrebbero fatto tremare la terra e avremmo lasciato questo mondo nella gloria e nell’estasi dello scontro finale , strappando la vita dal petto a quanti più nemici avessimo potuto. Forse nessuno un giorno avrebbe ricordato chi eravamo o per cosa avevamo combattuto, ma ciò che contava veramente era che pochi si sarebbero battuti contro molti. Dal nulla poi arrivò lui, seguito dal gelido vento del nord. Profonde cicatrici sul suo corpo possente narravano storie di indicibili sofferenze. Nei suoi occhi, due pozzi neri imperscrutabili, ardeva il sacro fuoco della battaglia. Al suo fianco, l’acciaio: funesto portatore di punizione e morte per chiunque avesse avuto l’ardore di sfidarlo. Attraversò l’accampamento per dirigersi in cima all’altura. Una volta lì, estrasse la spada e la levò al cielo…

”Dei della guerra, ho udito il vostro richiamo. Ho spezzato le catene dell’oscurità per riemergere degli inferi. Offro a voi il mio giuramento, forgiato nella sofferenza degli indifesi e temprato dalle lacrime degli eroi.  Non arretrerò di un passo e non darò tregua. Caverò i loro occhi, strapperò i loro cuori,  farò a pezzi uomini e bestie fino a che l’ultimo falso profeta non sarà caduto sotto i colpi del mio martello. L’acciaio canterà litanie di vendetta e il cielo e la terra stessi saranno lordi del loro sangue. Dei della guerra, presto conosceranno il potere della mia spada.”

Il vento portò le sue parole, esse divennero fuoco e il fuoco divampò nel petto di chiunque avesse udito la sua chiamata. Vidi vecchi ergersi nuovamente come nel fiore degli anni. Vidi feriti abbandonare i loro giacigli e i loro sostegni. La chiamata alle armi dilagò di cenno in cenno, di sguardo in sguardo fino a esplodere fiera e potente come un incendio inarrestabile. La fucina di Crom temprò gli spiriti mentre il suo maglio forgiava le armi del nostro destino. Bramavamo la guerra e non temevamo la morte: presto avremmo incontrato entrambe.

Venne così il giorno del giudizio: nubi tempestose portate da venti funesti si addensarono su di noi come oscuro presagio. La marea nera dei traditori ci sovrastava per numero. Una massa informe e selvaggia si estendeva fino all’orizzonte. Urla disumane e ruggiti si confondevano nell’aria creando un’infernale cantilena. Dalla parte opposta eravamo schierati noi: ranghi serrati, l’acciaio stretto nel pugno. Non vi era indecisione nei nostri cuori né tremore nelle nostre membra. Fissavamo spavaldi i nostri nemici in modo che ognuno di loro capisse chiaramente che avremmo lasciato quel giorno solo con la vittoria o con la morte. Non fu mandato nessun emissario, non si parlamentò di resa o di pietà: nessuno l’avrebbe chiesta, nessuno l’avrebbe concessa. Calò improvvisamente il silenzio sul campo di battaglia, il cielo era plumbeo pronto a scatenare la sua furia. Dal centro delle nostre fila si fece avanti lui, un titano fra i mortali. Avanzò lentamente cupo in viso, per un attimo interminabile volse lo sguardo verso l’alto, attendendo forse un segno dai suoi antichi dei. Improvvisamente un boato ruppe il silenzio: un fulmine squarciò l’oscurità seguito dal rombo assordante del tuono. Fu proprio in quel momento che lanciò il più selvaggio, brutale e poderoso grido di battaglia che uomo abbia mai udito, scatenando così l’assalto finale. Ci lanciammo nella lotta come un fiume in piena, cavalcando verso la gloria in un inarrestabile turbine di violenza e morte. Le urla agonizzanti dei feriti si confondevano col cozzare degli scudi, la terra bevve il sangue di molti valorosi quel giorno. Combattemmo con valore, fratelli spalla contro  spalla. Tale fu la ferocia e la sete di vendetta che il nostro acciaio mai si asciugò, cremisi messaggero di morte. Lui era là, dove la mischia infuriava più selvaggia. Non diede riposo né alla spada né al martello, abbattendo in un delirio di onnipotenza chiunque fosse stato così folle da affrontarlo. Cento ne avanzarono e cento ne falciò, ridendo mentre ne sbriciolava i teschi sotto gli zoccoli del suo destriero. Non più uomo ma trasfigurato  nel dio stesso della guerra, invincibile e immortale. Non importa chi fosse stato prima, se servo, schiavo o principe: nel cuore della battaglia lui era il Re dei Re. Infine, così come era arrivata, la tempesta svanì e il giorno volse al termine. I loro minacciosi stendardi giacevano ora nel fango mentre il sangue dei falsi profeti bagnava ancora le nostre spade e le nostre mani. Un desolante tappeto di morte ricopriva il campo di battaglia, corpi straziati gettati ovunque, come foglie secche sparse dal vento. Solo pochi di noi si mantenevano ancora in piedi: feriti, esausti, vittoriosi.  Quel giorno fu coronato da epiche gesta e da enormi sacrifici. Gloria eterna sarebbe stata la ricompensa per i valorosi caduti in battaglia e il nostro coraggio e i nostri canti di vittoria avrebbero risuonato per l’eternità.

 

” Bene, fine della storia. Allora, ti è piaciuta?”

”Certo nonno, è stata grandiosa!!!”

”Sono contento. Ora però fila a letto che è tardi.”

”Nonno…”

”Sì tesoro, dimmi?”

”Chi era quell’uomo? Che fine ha fatto?”

” Chi era quell’uomo? Solo io che diventai il suo cronista posso raccontarti la sua saga. Dormi ora, domani sera ti dirò di quei giorni di grandiose avventure”

 

Pier Melidori

 


 


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