Un pomeriggio d’agosto di un anno qualsiasi, da qualche parte nel mondo. L’afa era opprimente, come i pensieri che le affollavano la mente. Sempre gli stessi. La noia di quell’ultimo scorcio di un’estate incredibile, inaspettata, che aveva corso alla velocità delle montagne russe, su e giù tra vecchie presenze e nuovi volti.
Una strana malinconia, sensazioni astratte che erano ricordi di una vita ormai lontanissima ma che in realtà le sembrava di non aver mai vissuto, la nostalgia di certi momenti effimeri e sfuggenti, come pulviscolo spazzato via dal vento. Il gusto amaro lasciato dal tempo sprecato dietro a sogni pericolosi… C’era qualcosa di eroico nella sua incrollabile ostinazione, eppure capiva che avrebbe dovuto trovare il coraggio di arrendersi e lasciare andare un pensiero meraviglioso che serbava nel cuore da un po’… impalpabile come sabbia, per quanto avesse stretto i pugni, non sarebbe riuscita a trattenerlo tra le mani. C’erano battaglie che non poteva vincere e questo era ciò che le faceva più male. I soliti mulini a vento. Sensi unici, sensi vietati, doppi sensi.
Qual era il senso del suo vagare? Se lo chiedeva spesso, non trovò mai una risposta che le desse un po’ di pace, ma non aveva alcuna importanza. Viveva insensatamente. Ecco, questo almeno le era chiaro. Ogni giorno si lasciava ispirare dalle persone, dalle loro storie banali, eppure uniche, era attratta dalle inezie, da tutto quello che era destinato ad essere rimosso. Gli spazi aperti le destavano serenità e pensieri immensi, il buio la spaventava sempre, fin da quando era una bambina. Cercava qualcosa di sé nel mondo, tutto quello che era dentro di lei, il finito e l’infinito, la gioia e la solitudine. Idee semplici, che sapeva figurarsi maestose e belle. Si nutriva delle sue visioni, le rendeva tangibili, quasi poteva toccarle, morderle, e poi stropicciarle e buttarle via, sprezzante, quando ne avesse partorite altre ancor più grandi e affascinanti. Così passava il tempo scrivendo, la sua penna raccontava fiabe fuori dal tempo, sospese tra sogno e realtà. Le parole emergevano dalla profondità dell’animo, favolose e delicate.
Poteva restare in silenzio per ore, chiusa nei suoi pensieri, qualcuno, prima o poi, avrebbe udito il suo canto muto che riempiva l’aria di una musica misteriosa. Era un libro bellissimo che nessuno aveva mai aveva letto, una storia che lei stessa stava ancora tentando di scrivere. A volte si sentiva smarrita nella la sua Atlantide, un continente sconosciuto di rimpianti e speranze ma, in fondo, non le dispiaceva quella solitudine forzata. Serbava tante cose dentro agli occhi. Forse qualcosa poteva ancora succedere. E così avrebbe aspettato. Eppure le cose più belle, indimenticabili, erano capitate all’improvviso, quando partiva da sé, abbandonando le sue vane illusioni.
Faceva strani sogni, alcuni terrificanti che la tenevano sveglia notti intere, altri meravigliosi. Su quelli costruiva storie romantiche che la facevano cantare per strada, incurante della gente stranita. Ce n’era uno, che aveva fatto di recente, a cui ogni tanto pensava, divertita. Un’ambientazione incantata che rievocava i giochi della bambina che era stata, quando si fingeva una principessa, in attesa del suo cavaliere. Un’ombra le teneva la mano, camminavano insieme su una spiaggia deserta, di notte, intorno non riusciva a distinguere nulla, solo poteva vedere i suoi piedi, illuminati da mille bagliori. Sopra di lei un cielo stellato, pareva un dipinto ad olio. L’ombra si manifestò nelle sue fattezze umane, un gigante con un sorriso cinematografico. Era bellissimo. Non le disse una parola. La baciò soltanto. Un momento perfetto di pura illusione.
Da sveglia, ebbe la sensazione di conoscere quel volto, ne era stranamente sicura. Lei non sbagliava mai. Così lo incontrò davvero, un pomeriggio di quella estate eterna… infinita come le sue paure, come la voglia di lasciarsi tutto alle spalle e correre fino a perdere il fiato, fino a svenire. Lui era reale e la sua mente lo aveva magicamente disegnato molto prima che si materializzasse davanti ai suoi occhi! In qualche modo era entrato nel suo sogno. Era convinta che nulla accadesse per caso. Un sorriso le illuminò la faccia, lui non capì. E che poteva saperne dei vaneggiamenti onirici di una piccola strega con gli occhi sempre lucidi che traboccano emozioni volatili, leggere come una brezza… come poteva immaginare quale incredibile vaso di Pandora si nascondesse dentro quello scricciolo di donna dal volto enigmatico. Si incrociarono per pochi istanti, e furono sufficienti a metterle un chiodo nella testa. Lei era una professionista delle fissazioni. Le crescevano dentro al petto, salivano fino alle tempie, poteva sentirle vibrare nelle vene e da quelle sgorgavano fiotti di travolgente ed effimera ebbrezza. Si ubriacava delle sue stesse fantasie, le sfidava, e nessuna era brava quanto lei a renderle possibili. Nulla era troppo pericoloso da impedirle di provarci, sapeva prendersi tutto ciò che voleva.
Non ebbe paura di sembrargli irriverente quando decise di raccontargli di averlo già visto. Lui rise di gusto, “la ragazza è pazza” avrà pensato. E mica si sbagliava. Quella era matta veramente. Straordinarie passioni che l’avevano ispirata e delusioni che ne avevano segnato il percorso, scoperte illuminanti e rancori che aveva saputo spegnere; era dolcemente folle, un mare impetuoso che a guardarlo non si sarebbe detto potesse travolgere ogni cosa. Aveva imparato a fingere una tranquillità del cuore che era rassicurante per gli altri, una gabbia per lei. Una forza violenta che giaceva inerte, pronta ad emergere veemente, se solo avesse avuto il coraggio di sprigionare la sua energia.
Ogni tanto doveva interrompere l’apnea e uscir fuori a respirare. E così fece quella volta. Il suo racconto sembrava un implicito invito, una studiata provocazione. Lui non doveva essere un coraggioso, sparì senza dir nulla, stupito o ferito da tanto ardore. Non tutti nascono pronti. Lei conosceva i suoi poteri, aveva una fiducia sconfinata nei suoi mezzi. Avrebbe atteso. L’estate si preparava ad andarsene, forse era una migrazione, con tutto il suo carico di miraggi e possibilità, l’odore della salsedine era ancora attaccato alla pelle, ma sarebbe passato soltanto poco tempo ancora e ogni cosa sarebbe ritornata alla sua dimensione reale… Quei mesi di sole e distese azzurre non erano stati che una parentesi di felicità che avrebbe serbato ancora nel cuore, fino al prossimo solstizio, un soffio di felicità che si nutrì di se stesso per estinguersi con il suo torrido afflato. Contava ormai i giorni che la separavano da quel lungo addio, non era dispiaciuta, l’inverno era pur sempre la sua stagione del cuore. Qualcosa, però, stava per fermare la clessidra. “Preparati, stasera ti porto al mare”. Era lui, il mostro bellissimo. Sorrise, aveva raccolto la sfida. Si era ficcato in un guaio e nemmeno lo sapeva. La ragazza ebbe un fremito improvviso, quella sarebbe stata la loro notte. La notte della strega e del marpione. Un cavaliere nero, come quelli che le piacevano tanto. Uno sbagliato, come sempre. Non gliene fregava niente, era preparata a farsi male, le piaceva il rischio, era sempre calcolato, conosceva l’epilogo prima ancora di iniziare, ma la voglia di provare a sovvertire i pronostici la portava ogni volta su quel precipizio altissimo, dove non poteva fare altro che saltare. E sperare che si aprisse il paracadute. Sempre che l’avesse messo. Dipinse i suoi artigli di un rosso lacca accattivante. Fu l’unico vezzo che si concesse. Non puntò sulla sua bellezza, non lo faceva mai. Sapeva incantare le sue vittime con la verità degli occhi, li travolgeva con una disarmante semplicità, soltanto una maschera che nascondeva un animo complesso, curioso, esigente. Era uno spirito gentile, delicato al punto che avresti avuto paura di romperlo in mille pezzi, eppure forte e libero, irriverente e sfacciato.
Sì, lei era tante cose.
Era curiosa di sapere che effetto le avrebbe fatto rivederlo nel suo cortometraggio. Si incontrarono che era già tardi. Lui si comportava come se la conoscesse da sempre, parlava e raccontava qualcosa che doveva essere divertente, lei non ascoltava, era persa nei suoi occhi scuri e duri. Quelli di chi non sa più amare. Occhi così ne aveva già visti, sapeva riconoscerli, ma per una maledetta pertinacia, non riusciva ad evitarli. Arrivarono su una spiaggia fuori città, lontano da tutto. Si udivano musiche e voci, forse una festa da qualche parte, ma intorno non c’era nessuno. Solo loro due e il mare. E un cielo di stelle meraviglioso. Si tolsero le scarpe e camminarono per un po’ nell’acqua scura. Lei provò la bellissima sensazione di trovarsi in un posto familiare, al sicuro. Lui la guardò e la tirò verso di sé. Le accarezzò i capelli e le sussurrò all’orecchio “E adesso?”. Lei non disse nulla, gli prese il volto tra le mani e avvicinò la bocca alla sua. Un bacio prima dolce, poi appassionato. Era bello, carnale. Era pura fantasia. Quell’umido intreccio, fatto di silenzi e sorrisi, durò per un tempo infinito. Lei lo guardava, come si mira cosa straordinaria. Sembrava stupito. Forse quella donna gli piaceva sul serio, molto più di quanto lui stesso si aspettasse. Perché lei era passione, incandescente e impetuosa, nera come quella notte, abbagliante come una luce fulminea e inattesa. Lei così piccola, delicata come una bambolina di cristallo, doveva essergli sembrata fragile e indifesa, quasi plasmabile come tutte le donne alle quali, di sicuro, era abituato. Gli bastò poco per capire che era molto di più. Una creatura speciale. Si lasciò trasportare nel suo magico mondo di streghe e principi, di sogni e fantasie, il regno di Nessuno, dove tutto era ancora possibile, ogni storia ancora da scrivere. Chissà se l’avrebbe mai più rivista…
Fa sempre paura il fuoco, incanta la sua forza devastante, ma solo i folli si avvicinano al punto di poterlo toccare. Nessuno sarebbe stato mai abbastanza audace per una così. Forse avrebbe dovuto meritarselo. Ma anche lui preferì la sua mancanza, come tutti gli altri. Non si sarebbero mai dimenticati l’uno dell’altra. No, non si sarebbero più incontrati. Da nessuna parte, in nessun sogno. Faceva un po’ più freddo quella mattina. Sorrise. Nell’aria si sentiva già il profumo di un nuovo autunno. Aprì gli occhi e pensò al tempo… “Il tempo sprecato, il tempo passato. Il tempo incostante, il presente. Il tempo futuro, quello imperituro. Eppure c’è un tempo che sento mi appartenga, una giostra che gira nel Luna Park di un’esistenza itinerante, un chiosco dello zucchero filato che mi fa tornare bambina. In quel microcosmo di ingenua felicità non c’è spazio per le domande, non troverò alcuna risposta. Forse non ha nemmeno un senso logico, ma ha senso per me. E questa è l’unica cosa che conta”. Lo chiamava il Suo Tempo Superbellissimo.
Il tempo del Risveglio.
Ilaria Di Leva
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