Correvo più che potevo lungo la strada nebbiosa. Il fiato caldo e affannato si raccoglieva in nuvolette di vapore attorno alla bocca. Quel giorno le temperature registravano tre gradi sotto zero ma sembravano almeno cinque di meno a causa dell’umidità.
Un tacco a spillo mi si infilò nella fessura tra due pietre e la scarpa si incastrò costringendomi a fermarmi per non rompermi una caviglia.
<<Accidenti a questi stramaledettissimi tacchi!>>, ringhiai abbassandomi per cercare di liberare la calzatura senza rompere il tacco, <<e accidenti a lui che mi costringe ad andare in giro conciata così su queste strade disastrate>>.
Il lui contro cui inveivo era il mio capoufficio, che pretendeva dalle proprie dipendenti di sesso femminile un look ben preciso: tailleur impeccabili, capelli sempre acconciati in severi chignon e tacchi a spillo come calzature. Così come richiedeva agli uomini abiti perfetti, scarpe lucide e cravatte ben sistemate anche con quaranta gradi ed il cento per cento di umidità dell’aria.
Mentalmente imprecai per la ventesima volta contro me stessa e la mia scriteriata decisione di trasferirmi in quel borghetto medievale dimenticato da Dio, con le strade lastricate di infidi sampietrini, cittadini con la puzza sotto il naso e dalla mentalità gretta e retrograda ed il clima umido e piovoso che rappresentava il mio inferno personale, abituata com’ero ai cieli azzurri ed al profumo del mare.
Avevo intrapreso da un anno la strada dell’indipendenza economica e familiare e non mi rassegnavo all’idea di tornare a casa sconfitta da un po’ di nebbia e pregiudizio. Presto avrei raggiunto il mio scopo, comunque. Avrei accumulato abbastanza soldi da lasciare l’Italia per trasferirmi negli Stati Uniti dal mio ragazzo ed insieme avremmo cominciato una nuova vita piena di sogni e di speranze.
Animata da nuovo coraggio tirai con forza la scarpa verso di me e determinata ad arrivare in ufficio puntualmente in anticipo, anche se sudaticcia e scarmigliata, riuscii ad estrarla, a calzarla nuovamente e a riprendere il mio frettoloso ma traballante cammino.
Giunsi come da programma dinanzi alla porta della banca con i miei soliti dieci minuti di anticipo, il tempo giusto per rimettermi in sesto ed accendere la macchinetta del caffè, quando all’improvviso il cellulare diede il segnale di messaggio ricevuto. Estrassi distrattamente il mio smartphone dalla tasca. Nella fretta avevo perso un orecchino e stavo lentamente tornando sui miei passi per cercarlo nei pressi dell’ufficio. Guardai il monitor di sfuggita.
Il cuore mi si fermò. Saltò un battito.
Che si trattasse di uno scherzo? La mano mi tremava mentre sbloccavo lo schermo per vedere meglio. Il mio fidanzato aveva mandato una foto abbracciato ad una bionda prosperosa che indubbiamente non ero io, che avevo sempre avuto i capelli del colore del rame e le lentiggini sul naso. Sotto la foto c’era una scritta in inglese “grazie per la splendida serata. Un ricordo per non dimenticare”.
La mano mi tremò e lasciai cadere il cellulare per terra mentre sullo schermo compariva l’avviso di una chiamata in entrata del mio fidanzato fedifrago, che chiaramente aveva compreso di aver commesso un errore madornale… maledetto coglione.
Intorpidita dallo shock sollevai lo sguardo vacuo e notai un baluginio al centro dell’incrocio. Come un automa mi diressi verso il brillio dell’orecchino che avevo perduto, mi chinai a raccoglierlo. Le lacrime mi offuscavano la vista e strinsi il piccolo gioiello così forte da ferirmi il palmo con la punta del gancio. Mi rialzai lentamente tornando sui miei passi, il cellulare squillava ancora… avvertii il dolore lancinante al fianco un attimo dopo l’impatto. Una macchina arrivata in velocità mi aveva presa in pieno. Poi ci fu solo oscurità…
Riemersi lentamente dal buio più fitto. C’era tenebra dentro e fuori di me. Scrollai la testa per schiarirmi le idee. Non capivo dove fossi finita. Attorno a me vedevo solo nero, non riuscivo a scorgere nemmeno le mani. Sentivo solo il battito feroce del mio cuore, il respiro affannoso e il martellare incessante delle tempie. Mi portai la mano alla testa in cerca di una ferita. Ero perfettamente a posto, persino il rigido chignon da lavoro era ancora impeccabile.
Provai a gridare in cerca di aiuto. Ma la gola era serrata. Nessun suono uscì dalla mia bocca. Il fiato mi si mozzò…
Intrecciai le mani al collo istintivamente, sentii sotto di esse il colletto della camicia di seta che avevo comprato il week end precedente ed il battito furioso del sangue che scorreva nelle arterie carotidee. Ma niente fiato. Provai a inspirare febbrilmente per capire se i miei polmoni funzionavano ancora e sentii l’aria gonfiare il mio petto… Bene, almeno quello era a posto. Il mio panico diminuii leggermente.
Non mi spiegavo però il buio e la mancanza di voce e quella sensazione di gola serrata, quel peso sul petto… improvvisamente cominciai a vedere un leggero chiarore e mi guardai attorno, cercai di rimanere focalizzata sul problema principale, capire dove mi trovassi e perché.
Voltai la testa a destra e sinistra in cerca della fonte di luce… all’inizio non ne riconobbi l’origine. Spinta dall’esigenza di andare incontro all’unico spiraglio di speranza che mi si presentava imposi alle mie gambe di muoversi e dirigersi verso di essa.
All’inizio camminai e basta, ma continuavo a non vedere nulla, avvertivo il rombo del sangue che scorreva nelle vene, mi tremavano le mani, sentivo l’adrenalina bruciarmi la pelle… poi, finalmente, cominciai a scorgere e delineare i dettagli del luogo in cui mi trovavo… le pareti erano lisce e nere, senza appigli e senza aperture, correvano in avanti e sopra di me formando una volta perfetta e tondeggiante… mi trovavo in un tunnel, senza aperture e senza luci, ma allora, da dove proveniva quel chiarore?
Cominciai a correre in quella direzione, ogni movimento mi costava fatica. Mi mancava l’aria, sentivo le gambe pesanti e la testa martellare ma avevo ancora una speranza, quella luce là in fondo non poteva che essere l’uscita.
Accelerai l’andatura per raggiungerla il prima possibile, sentivo che se fossi rimasta ancora in quel posto senz’aria avrei rischiato la pazzia.
Spinsi le mie gambe a muoversi sempre più velocemente, avevo fretta, sentivo l’ansia serrarmi il respiro. Gli arti bruciavano per lo sforzo, bruciavo tutta, per la paura, la fatica e l’adrenalina.
Cominciai a sentirmi stanca, ad avvertire il sapore del sangue in bocca e i polmoni scoppiare, non volevo però demordere.
La speranza però si affievolì mano a mano che procedevo e la luce rimaneva ancora vaga e lontana, il respiro accelerò ancora. Cominciai a trascinare le gambe e a spingermi avanti solo per disperata forza di volontà. Il mio corpo iniziava a non rispondermi più, sentivo solo fuoco e stanchezza, mancanza d’aria ed una crescente disperazione.
Diedi ancora uno scatto, non contemplavo il fallimento, sarebbe stata la fine!
Ma il mio corpo mi tradì e cedette, le ginocchia toccarono dolorosamente terra ed io mi trovai carponi, sudata, ansante, prostrata e tramortita cercando ancora di guardare vero la luce. Ma il buio mi inghiottì. Crollai faccia a terra, sentendomi sconfitta, senza speranza né via d’uscita… finita.
Mi risvegliai lentamente, ero ancora quasi del tutto immersa nell’oscurità. Il viso era coperto dalle mie lacrime disperate. Ero dolorante in ogni dove ma provai a rialzare la testa… la luce era ancora là, ma era la mia impressione o sembrava più vivida? Sentii rinascere in parte la speranza. Provai ad alzarmi, determinata a continuare a camminare ma ero ferita, rotta, vinta. Tirarmi sulle ginocchia mi costò uno sforzo immane, il dolore al petto e alla testa era lancinante. Ma in me si era riaccesa la speranza di uscire da quella notte senza luce e con più determinazione che forza mi rimisi in piedi.
I primi passi furono incerti, deboli, barcollanti ma un passo dietro l’altro avanzai, lentamente ma inesorabilmente.
Dopo un tempo che mi parve infinito, stanca ma ancora determinata, vidi il lucore crescere di intensità e cominciai a sentire vagamente delle voci e dei suoni. Mi bloccai…
Questa volta il cuore batteva forte per la speranza, mi era parso di riconoscere voci familiari in quei suoni confusi.
Tesa ed in trepidazione cercai di cogliere ogni piccolo dettaglio e finalmente sentii una voce che riconobbi. Era mia madre che mi chiamava, la sua voce era disperata quanto lo ero io, sembrava che stesse piangendo.
Ignorando il dolore cacciai un urlo che aveva poco di umano, ma questa volta la voce emerse. Gracchiante e debole ma venne fuori. Chiamai mia madre implorando il suo aiuto e lei parve sentirmi perché mi rispose con voce più chiara, spronandomi ad andare avanti.
La forza rifluì in me, sentivo la fine dell’incubo approssimarsi e ritrovai forza, vigore e speranze. Ripresi a camminare, a correre, una falcata dietro l’altra, un respiro dietro l’altro e mi avvicinai inesorabilmente a suoni e luce.
La caduta arrivò improvvisa. Non ero pronta, non me l’aspettavo, non ci pensavo più.
Caddi rovinosamente in una buca che al buio non avevo visto e ruzzolai sulla pietra dura precipitando nel vuoto. Atterrai con un tonfo sordo. Mi faceva male dappertutto. Per un attimo non riuscii ad alzarmi, ero sotto shock. Poi lentamente, facendo leva con le mani lungo la parete liscia mi tirai su.
Mi guardai attorno.
La luce era svanita, la voce di mia madre era scomparsa, la speranza si spense lentamente.
Colta da furore, disperazione e panico tentai di arrampicarmi e cercare un appiglio lungo i muri. Trovai delle piccole insenature e graffiandomi ginocchia, viso e spellandomi le mani a sangue tentai l’arrampicata. Ma fallivo miseramente ed ogni volta che ruzzolavo nuovamente per terra scivolava da me ogni traccia di lucidità…
Mi guardai attorno disperata, tentando di scorgere un altro scampolo di luce o una via di fuga. Ma il nulla mi attorniava. Buio, pareti lisce e disperazione. Col fiato ormai corto ed accelerato, la testa ed il corpo in fiamme tastai ogni singolo centimetro di roccia in cerca di una via alternativa. Trovai una specie di cunicolo basso e mi ci infilai rapidamente senza nemmeno chiedermi dove portasse.
Il piccolo tunnel scendeva, voltava e risaliva ma non c’era traccia di suoni, di luce o di speranza. Girai, striscia, corsi, gridai e mi disperai… non trovavo più una strada né la speranza.
Allo stremo di ogni energia fisica o mentale, devastata nel corpo e nella mente precipitai nel dolore. Mi accovacciai per terra urlando come una bestia ferita e piansi, piansi tutte le mie lacrime e la mia frustrazione… non c’era via d’uscita, sarei morta là, in quel modo… sola, disperata e al buio.
Non so quanto tempo rimasi là a piangere e gridare tutto il mio dolore, forse ore, forse giorni, forse settimane, forse molto, molto di più… persi ogni pensiero lucido, persi l’orientamento e persi me stessa.
Stremata crollai e l’oblio mi colse… portandomi una pace relativa e temporanea.
Molto tempo dopo, riaprii gli occhi. Ero ancora al buio, sola e sopraffatta. Ma non ero vinta, non ero ancora sconfitta.
Non volevo arrendermi.
Forse il riposo mi aveva ristorata, mi aveva ridato le forze o forse, semplicemente, non ero ancora pronta a cedere. No, non avrei ancora mollato.
Un moto di orgoglio mi spinse a cercare una soluzione, a spremere le meningi per pensare. Pur rimanendo stesa tesi le orecchie… misi in moto il cervello e pensai, rimuginai, cercai una via d’uscita che non c’era.
Non poteva finire così, non sarebbe finita così. Non in quel modo, non a me.
Non volevo morire, non volevo che finisse. Io volevo vivere, gioire, riabbracciare i miei cari… ma rimasi immobile, attendendo una risposta che non arrivava.
Tesa ad ascoltare i miei pensieri, immersa in una nebbia a metà tra coscienza ed incoscienza non mi accorsi subito di un suono strano e particolare, ma presto la caligine del rimuginare convulso si diradò ed il suono insistente e forte cominciò a penetrare nel mio inconscio. Mi sollevai sul busto cercando di focalizzare e individuare la provenienza di quel rumore.
Sembrava un lamento, una specie di mugolio. Non si capiva bene. Senza rendermene conto mi misi in piedi, tutta tesa nell’ascolto non prestai attenzione nemmeno ai miei dolori.
Mi appoggiai alla parete per sostenermi, ero debole e mi girava la testa ma avevo tutta l’intenzione di capire cosa fosse quel suono. Tutta me stessa mi diceva che era importante.
E alla fine capii. Scattai dritta come un fuso, il cuore di nuovo impazzito, ma per la felicità e la speranza, non per la paura o l’angoscia. Il sangue tornò a circolare più rapidamente fermando la sensazione di spossatezza.
Era un guaito! Era un cane che abbaiava insistentemente.
Il mio cane! Lo avrei riconosciuto tra mille ed ero certa che mi avrebbe trovata.
Riacquistando la voce e le forze lo chiamai, piangendo e gridando nello stesso tempo. Voltai il capo da un lato e dall’altro cercando di intuire da dove venisse il latrato finché, tastando il pavimento, non trovai sotto di me una leggera pendenza. C’era un’altra buca vicino a me.
Sarei precipitata di nuovo! Non ci potevo credere, proprio nel momento in cui pensavo di aver ritrovato la speranza di uscirne viva correvo il rischio di perdere tutto un’altra volta. Il panico mi paralizzò, la gola si serrò di nuovo ed io mi pietrificai.
Sentivo ancora l’abbaiare furioso del mio cane ma non sapevo cosa fare, se mi fossi mossa troppo rischiavo di perdermi ancora una volta, d’altra parte rimanere ferma là non mi avrebbe di certo aiutata ad uscire…
Intontita dal dubbio e dalla paura rimanevo ferma, immobile. Ogni minuto che passava rischiava di farmi perdere l’unica mia speranza di salvezza… e, infine, mi decisi.
Che possibilità avevo se fossi rimasta ferma là? Era meglio ruzzolare rischiando il tutto per tutto che rimanere là ad attendere la fine…
Non ci pensai ancora per molto, io volevo vivere, volevo sperare e ci volevo credere. Con un balzo scesi nel fosso…
Scivolai sul terreno pendente, graffiandomi ogni centimetro ancora sano di pelle. Persi l’orientamento ancora una volta, il panico mi assalì di nuovo e tentai di trattenere la caduta in qualche modo, senza riuscirci.
Atterrai schiena a terra, senza respiro, sentivo solo dolore.
Non udivo più niente. Non sentivo il latrato del mio cane, non vedevo la luce, non vedevo speranza. Avevo commesso il suicidio definitivo? Avevo mosso l’ultimo passo verso la fine e la disperazione?
Prima ancora di potermi rispondere una lingua rasposa mi leccò la guancia donandomi una gioia infinita. Ero salva! Mi avrebbe portato in salvo, mi fidavo di lui ed infatti non mi deluse… cominciò a correre, io ne seguivo il percorso inizialmente utilizzando solo l’udito, poi, però, cominciai a vedere un chiarore, sempre più forte, sempre più netto, sempre più nitido, finché non distinsi bene il luogo attorno a me, il cagnolone che mi correva davanti e le mie mani… non avrei mai pensato che, un giorno, rivedere le mie mani, avrebbe potuto commuovermi così. Senza smettere di correre piansi tutte le mie lacrime. Le gambe non mi reggevano più, il cuore scoppiava nel petto ma nessuno, nessuno avrebbe potuto fermare la mia corsa verso la libertà… varcai la soglia del tunnel, corsi verso il cielo azzurro e volai tra le braccia dei miei genitori che, stravolti ma felici, mi attendevano all’uscita. Sfogai tutte le mie paure fino a consumare tutte le mie lacrime, ero viva, ero in salvo ed ero al sicuro.
Chiusi gli occhi aspirando il profumo di mia madre, e facendomi cullare da lei come quando ero bambina e scivolai nel sonno. Ero finalmente giunta alla fine del mio percorso. Quel tortuoso, difficile e buio sentiero che avevo intrapreso quando un dolore inatteso e traumatizzante mi aveva colpita, precipitandomi nel dubbio e nell’incertezza. Avevo rischiato di perdere me stessa cedendo all’ignoto e alla paura. Ma non mi ero mai data per vinta. Nemmeno nel momento più disperato. Ero finalmente approdata fuori dalla Panic zone e giurai a me stessa che mai, mai e poi mai mi sarei arresa e che anche nella disperazione più buia avrei trovato la mia luce…
Caterina Schiraldi