Grandi, dannatamente grandi erano i miei occhi che immergevano in un oblio fatale, nella voluttà che ardeva già solo a guardarli, inebriando ed estasiando, lacerando in quei profumi e delizie, che liberavo peccaminose, torturatrici, come un veleno dolcissimo. Un refrigerio crepuscolare, distruttivo e letale.
La mia eleganza felina che si stagliava fiera, artigliando rapace, con armi naturali, colle mie mani affusolate, mirifiche, attraenti. Avevo un corpo che ardeva, spandendo frenesie, un viso che fiammeggiava, che trebbiava gli uomini come se fosse sempre la stagione della messe; li attraevo a me incantandoli, turbandoli, illanguidendoli.
Li abbagliavo e li ammaliavo col mio sguardo impenetrabile, proiettato da due iridi illeggibili, oscure, inconsuete, forse arcane, ancorché assai assai assai meravigliose. Un’espressione statica, infaustamente mostruosa e infallibile, l’insidia che richiama come se fosse nettare, come se fossi una dea maledetta che avvolge stritola e infine annienta, col fascino di un abisso che inghiotte tutto, ma proprio tutto, in un vortice di brividìo e pericolo. L’attrazione implacabile di un tuffo nel gorgo funesto.
Ero fuoco vitale, ero passione, ero dolore estremo, il pendio della perdizione. Tutto quello che credevo di essere e più non ero.
Oggi la vita mi sembrava un sogno in cui avevo languito, lo struggimento che sommergeva in un incertissimo oblio, cogli occhi fissi e incommutabili, persi di fronte all’orizzonte e al presente, cupa solitudine e forse fonte dell’infinita assenza del destino.
I giorni scorrevano lenti e uguali, senza brio e senza ardore, tra un’estate che mi ristorava e l’inverno che sopravveniva, come stagioni che si susseguono senza un vero cambiamento.
Eppure era davvero tutto mutato, tutto finito, senza che io potessi fare qualcosa per alterare una sorte che aveva le sembianze dell’invariabilità; come aprirsi e schiudersi incessantemente, oltre lo scopo, priva di alternative, sapendo che nessuna alterazione al futuro sarebbe stata possibile, se non in negativo.
Da quel giorno maledetto era cambiato tutto, quel giorno in cui ero ancora piccola.
Se fossi stata donna avrei scritto quel che segue.
Per venticinque anni abbiamo festeggiato il tuo compleanno insieme. Mi ricordo che ero quel giorno alle prese con la scelta di un regalo perfetto, e al tuo rientro trovavi sempre la pasta al forno che a te piaceva tanto, la torta e una festa. Ed ero contenta di vederti felice, perché a te bastava poco.
Adoravo i tuoi occhi che brillavano quando aprivi il mio regalo. Facevi quel sorriso bello e soddisfatto. Era bello abbracciarti papà, era bello cantarti sempre la stessa canzone.
Adesso, nello smarrimento dell’ineluttabile, sono solo fiori e preghiere, nessun dolce nessuna festa, solo tristezza che ha il sapore dell’angoscia.
I tramonti appassiscono ogni giorno oltre il vulcano, mentre un tempo splendevano come un sipario che chiudesse un panorama di serenità, e volgeva la sera coi bagliori nel cielo che quietavano affascinandomi.
E ora che siamo lontani anni luce, la rimemorazione dei tuoi occhi che brillano è solo nella mente, che li scruta come se fossero presenti e vivi; eppure il tuo effluvio lo percepisco ancora, afferro i tuoi abbracci, carezzata dalla sensazione pura e trascinante di perdermi dentro una tua emozione. Tu mi stringevi forte, cuore con cuore, ed io mi sentivo al sicuro da tutto e tutti, invincibile, perché avevo te, sempre al mio fianco, sempre con me, sempre dalla mia parte.
Un’onda di ricordi, nervosa e inquieta, come se dentro il petto mi gravi un futuro perduto, la solitudine più insperata, il presentimento che ogni attimo che giunge sia fumido, oscuro, senza possibilità di approdo. Ero sola.
I miei occhi cambiano in base al tempo, cambiano luce in base alle persone, stravolti dal turbine della dispersione della folla, amalgama di follia, che logora vituperando, disprezzando, insinuandosi fin dentro le proprie profondità più delicate. Ho paura di farmeli guardare perché sono porte, e a volte persino valichi da cui la mia anima fuoriesce aperta e ingenua, in questo tempo che è solo un’illusione dell’immaginazione.
Tutto vi scorre davvero dentro come un panta rei che mi divora.
Mi sento come la tormalina nera, in interminabile connessione con una Natura che mi avvolge, che distoglie da ogni discordanza, ridonandomi una melodia che diviene sinfonia, uno scambio di suoni simbiotici, la terra da cui provengo e a cui ritornerò come un pulviscolo, a perpetuazione di un’esistenza che non avrà mai fine, nella divinità di tutto ciò fugge a ogni comprensione, che sia cielo mare o terra. Quello che percepisco è che io sono una luce che trasmigra e si nasconde, come ogni riverbero che illumina celato. Io sono terra.
In questo connubio radicale col suolo e con l’aria, naturale ingenuo innato, io mi ritrovo viva solo nella dolcissima simbiosi con coloro che come me non hanno la maschera di una società cangiante. Anime semplici e irrefutabili, che cinguettino, miagolino e soprattutto ululino.
Ma ecco quel che sono.
Il crepuscolo scende lento e inesorabile, al di là dei muri, oltre le case fino a raggiungere una linea di demarcazione quasi indistinta, che disintegra ogni possibile scorcio di quel paesaggio meraviglioso che si estende nell’immenso buio.
Si affiochiscono l’esuberanza e il brio viscerale che al sole si effondono nel loro semplice aroma, quando apro le mie ali e volo di fiore in fiore, gialla o variopinta a guisa di una farfalla.
Eppure ancora mi credo brutta e informe come un bruco, perché quello ero un tempo, quando strisciavo col rischio di essere calpestata.
Ma io già allora sapevo che sarei cambiata, in un divenire inarrestabile, per giungere oltre il mio corpo, oltre la cima, oltre la trincea, per essere quello che per sempre sono: il mutamento che passa attraverso il dolore, la sofferenza che si rinnova, assume potenza, trasvola la propria esistenza, avvolgendosi in un manto di sicurezza, sognando il volo, librandosi ad altezze immani.
Il vento mi trasborda tra profumi senza tempo, immersa tra le violette, le viti e gli olivi, baciata dalle ginestre, che mi ammantano; e in quel riposo gli occhi si abbagliano nella luce del sole, che mi ravviva e mi distende in una dimensione flautata e incantevole.
Se fossi stata una donna avrei sofferto la vita, tra le inquietudini, le angosce, le trepidazioni di speranze, dolendomi per le illusioni, le promesse vane, le aspettative che sfumano, attraggono, lacerano l’anima, e la chiudono in un martirio incomunicabile, smarrendomi tra l’afflizione e la passione, senza la tenerezza che avevo sempre sognato.
E quindi non avrei trovato la gioia fuggevole, la splendidezza della reciprocità, se non un sorriso corrugato e affranto, che sarebbe svanito all’apparire delle prime tristezze, coi carichi di corrucci, offuscando uno spirito pieno e potente.
E ora vago tra l’immensità della luce, odorando interminabili essenze, non più portento di disillusioni, libera da ogni dolore, da qualsiasi amore che appanna e arde.
Non ho più scopi perniciosi, futili mire, desideri inappagabili che frantumano la gioia del vivere ora, giacché il senso della mia vita era un divenire perpetuo, una mutazione che non avesse il pianto o il sorriso, se non nel volo. Ero nata libera e allora non ci credevo. Sarei dovuta divenire una creatura solare, e adesso finalmente quella ero.
Mi guardo mi scruto deduco: il corpo è l’apparenza, lo stato, la qualità, e la prima presentazione dell’anima.
Ero sempre stata una farfalla.
Joe Oberhausen-Valdez
1 commento