Quel maledetto porto d’armi mi era scaduto già da qualche mese, e ancora non avevo alcuna notizia sulla sua sorte. Forse l’addetto all’iter, alla firma, era lento, se n’era dimenticato, era malato. Che minchia ne potevo sapere di come funzionasse quel mondo.
Decisi di andare in questura a verificare.
L’edificio era vecchio e storico, il portone enorme spalancato, custodito solo da un agente che gentilmente mi disse di andare al terzo piano, salendo per la scala a destra dell’androne. La settima stanza era quella che mi serviva, e là avrei trovato l’ispettore che mi avrebbe delucidato in toto (cominciavo già a parlare un linguaggio burocratico e da caserma).
La scala era ripida, ma io non ero ancora attempato; i miei quarantanove anni non erano reali, fisicamente ne avevo solo una trentina, per cui rapido e determinato arrivai all’obiettivo.
Bussai, e una voce sicula, maschia, poliziesca mi rispose: “entrasse!”.
Su una sedia cigolante era seduto un uomo calvo, barbuto, di bell’aspetto, con occhi verdi o azzurri, o glauchi, e comunque penetranti. Un bell’uomo, come in seguito tutte le sue amiche specificavano ed evidenziavano al mondo. Ma a queste menzioni tornerò in seguito.
Mi tese la mano presentandosi come l’ispettore Roccia, e ironicamente aggiunse: “Roccia dell’Etna”. Fece cenno di accomodarmi, e mi acculai su una sedia di legno durissimo, scomodissima, un supplizio, mentre osservavo l’ispettore che sogghignava, pensando che la lentezza del rilascio del mio porto d’armi fosse dovuta all’ilarità o alla stranezza del poliziotto. Ero proprio in buone mani…
Notai che la parete era cosparsa di crest, onorificenze, attestati, brevetti e altri documenti che attestavano la serietà del mio interlocutore, contrariamente a quanto io in un primo momento avevo percepito.
- E così lei vorrebbe il rinnovo del porto d’armi venatorio, manco per uso sportivo?”.
Questa domanda mi sembrò sgradevole. Che me ne facevo dell’uso sportivo, non avevo bisogno di andare a sparare in un poligono, tirando alle sagome di cartone; per cui quasi adirato gli risposi: “ho sempre avuto il porto d’armi da quando avevo diciotto anni, non vedo perché dovrei cambiare uso proprio adesso, e non comprendo la ragione di questo ritardo e di queste domande.”.
L’ispettore, ridendo, mi disse solo: “perché non capisco che ci faccia con un fucile da caccia un prete. Lei dovrebbe amare gli animali, gli uomini, ogni essere vivente, e mi sembra quindi strano che possa uccidere anche solo delle lepri o dei conigli.”.
Sbottammo a ridere insieme quando gli rivelai che a me il porto d’armi serviva solo per andare nella mia campagna, a sparare alle lavatrici e ai frigoriferi, che alcuni incivili avevano lasciato anni addietro vicino al cancello della casa in mezzo alle vigne. Le fucilate erano un monito a quella gente, affinché capisse che lì ci abitava uno serio – quandanche prete – che sparava piombo a iosa.
Roccia mi rassicurò. La prossima settimana avrei potuto ritirare il permesso uso caccia nella stazione dei carabinieri del mio paese. Lo ringraziai e lasciai quell’edificio.
Un venerdì pomeriggio, sul crepuscolo che calava, mentre dicevo messa, scorsi in chiesa l’ispettore, meravigliandomi, non capendo che ci facesse nella mia dimora, mia o di Dio, poiché Roccia abitava nella città capoluogo di provincia.
Mi confidò che aveva urgente bisogno di confessarsi, cosa che non accadeva da anni, e io gli ero apparso come un sacerdote talmente sui generis da volersi inequivocabilmente aprire a Dio tramite me. Acconsentii.
Al confessionale di legno di abete gli manifestai fraternamente e senza usare un repertorio ecclesiastico: “Roccia, dimmi tutto!”. “Padre Joe, comincio dal viso che da qualche mese non abbandona la mia mente. Le parlerò come se lei fosse un vecchio amico, perché io percepisco gli uomini dal volto e dalla postura. Sono pur sempre uno sbirro.”.
Ed io: “puoi chiamarmi tranquillamente Joe e darmi del tu. Me ne fotto delle ipocrisie, dei convenevoli, delle cerimonie di questa civiltà. Ma dimmi, come era questa femmina, era giovane, era figa, era un vaccone?”.
- Da dietro le sue labbra accoglienti (delizia, diletto, voluttuoso incanto, come poi provai, labbra ineguagliabili e voraci, lo devo sottolineare perché mi struggono sempre, ogni volta che le guardo) sfondava e fuoriusciva impetuoso un vortice, che risucchiava inesorabile il mio spirito selvaggio e pronto. Appena la vidi, rimasi davvero incantato, era molto più giovane di me, mi colpì subito il suo viso, mi lacerò, mi penetrò lei. Quegli occhi statici, cosparsi d’ombra, tremendi, luci maledette e terribili, mi accesero ogni parte del corpo mandandolo in escandescenza e in visibilio. E che dire della sua pelle tenuissima, di quelle mani puro incanto?! Mi rabbrividivano quando le vidi armeggiare sulla chitarra nera. Vi berrei estasi da quelle palme.
È un magnete che mi irretisce, fosse anche una calamità, e non più fuoriesce dal pensiero.
Avevo la subbia che fremeva, che nitriva, volevo scolpirla e inciderla, in un moto irrefrenabile, terribile, tremendamente potente. In quel momento avrei voluta prenderla e agguantarla, impossessarmi della sua carne e della sua bocca, spaccarla tutta, mandarla in estasi nel paradiso di Allah o di qualsiasi altro dio.
- Roccia, ho capito, era bellissima, e una così, da come me la descrivi, l’avrei spaccata pure io che sono un prete. Tanto io sono ateo.
- Joe, aspe’ mi sta chiamando Laura.
- Roccia, minchia ti sto confessando… chi è Laura, la tua fidanzata?
- È una mia amica, poi te la presento. È un’amica vera.
- Ho capito, è mediocre.
- No, che mediocre, è una bella donna, ma siamo nati come amici.
- Va beh, ho capito che non ti ispira.
- Ma che, è bona pure, ma ormai è un’amica.
Riprendemmo la confessione, che non aveva altro tema se non amplessi, donne, mal di schiena, “la distruggo”, “ululava”, “è una stronza”.
In fine dovetti assolverlo. Tanto erano minchiate. Che gliene fregava a lui di confessarsi e di essere liberato dai peccati, che peccati non erano; era venuto in chiesa solo per stringere amicizia col prete cacciatore.
E amicizia divenne. Mi chiamava ogni giorno, socializzavamo, parlavamo sempre di donne, di malelingue, piatti di pasta, di cretini. L’argomento non variava, a noi piaceva così. Ore e ore di telefonate, passando da Monsignor della Casa per finire al Carpe diem, non tralasciando il mondo bastardo e inaffidabile.
Spesso ci trovavamo a casa di una comune amica, che aveva il piacere o la pazzia, o forse era una malattia, di organizzare feste; una donna particolare, allegra, di cui Roccia si era invaghito tempo addietro, anche se in lei non era scattato lo stesso meccanismo.
Lì conobbi Laura, e mi fece una buona impressione.
Alle feste dell’amica venivano sempre moltissime persone, delle quali malamente ricordo il nome, erano a centinaia, erano volti che il giorno dopo avrei dimenticato.
Caratteristica comune: tutti erano divorziati. Si lasciavano, si prendevano, si cornificavano, si rimettevano insieme. In sintesi nessuno aveva pace. Manco fossero ragazzini.
Roccia, essendo una persona carismatica, divertente, simpatica, un biddrazzu, era sempre al centro dell’attenzione, o delle aspirazioni delle varie amiche e conoscenti che incontravamo alle feste o in quella comitiva aperta sempre a nuove presentazioni e ad aggregati più o meno stabili.
Secondo le dicerie del nostro gruppo, l’ispettore fino ad allora era arrivato ad amarne sei di noi, ma si vociferava che ci fosse anche un settimo sigillo da rompere, o forse erano solo chiacchiere, tra l’altro alimentate pure da Roccia, che era autoironico.
Comunque io sapevo che il sigillo esisteva veramente, solo che si trattava di un evento superiore, e probabilmente anche di una cosa seria. La donna era un’assennata; non che le altre non lo fossero, però lei sembrava davvero austera, riflessiva e ponderata.
Quando me ne parlò, gli manifestai che anche secondo me la ragazza, oltre ad essere carina, era davvero come sembrava, e come lui la credeva, per cui come mi disse: “Joe, mi piace proprio, ha un bel corpo, un viso carino, la voce mi rapisce, mi ammalia, è un cinguettio, è un echeggiamento che mi svelle il cuore dal petto e me lo tiene fra le sue mani. Quando la vedo, sento il magma della Montagna, che dalla Valle del Bove si riversa nelle mie arterie, mi avvampa, mi esalta, accumula tutta la potenza che riverserei in lei. Lo so, è riservata, e ancora non ho idea di come muovermi, temporeggio. Ma sento fino alla gola il moto del cuore, ignito e furente.”.
Era di nuovo innamorato.
Speravo che lei fosse davvero la donna giusta, la messaggera dell’amore; del resto Roccia non voleva più avventure, ma una compagna stabile, sincera, che non fosse un semplice passatempo, un gioco di seduzione o di sollazzo.
Le tresche non gli interessavano, e quelle passate erano capitate per caso, come suggestioni che avvengono nell’attimo in cui sei triste, e gli occhi di una donna, che ti guardano ammalianti, ti estirpano la malinconia dannata di quel momento, e ti trasportano in una dimensione che annienta uggia, solitudine, umor nero, e qualsiasi altro malanno, che partendo dall’anima ti giunge nel corpo e lo scanna.
Roccia aspirava al riposo e al diletto del guerriero che va in pensione, anche se per la quiescenza ci sarebbe voluto ancora qualche anno, anzianità che non traspariva dal suo spirto simpatico, istrione, ma sempre leale e corretto.
Il settimo sigillo era il desiderio dell’approdo postremo.
Non era un corpo, era un’anima; non era un’effigie dell’avvenenza, era la bellezza del calore e della complicità, il ristorarsi tacitamente, l’evocazione dell’idealità che si materializza come simbiosi di una fusione assidua e lungimirante.
Tutto quel che di vago e di doloroso scorreva nella sua mente era riposto in eventi passati e superati, eppure lui lo taceva, lui lo mutava in sorriso e in allegria, sebbene in quel corpo, nelle apparenze, nelle posture e nei desideri si scorgessero impronte dolenti che lo amareggiavano e lo scolpivano come macchine demolitrici.
Resisteva, lottava, e soprattutto gioiva, creava fiamma e fervore, accomunava, sprigionava affetto e festosità.
Questo era un uomo.
Piaceva a tutti, a tutte, e tutti lo desideravano. Da quegli occhi azzurri masculi traspariva candore e generosità, e molti lo invidiavano.
Era la vigilia di Ognissanti.
Un’amica aveva organizzato una festa in maschera, un’occasione per dissotterrare una sconosciuta faccia e far recitare una nuova apparenza, nascondendo l’essere, che crediamo la vera sostanza, mentre l’unica cosa che conta e che esiste è quella molteplicità di costumi che sfoggiamo giorno per giorno, diversificandoli nelle ore, alternandoli in base al luogo, alle altre maschere, pure secondo la temperatura della stagione. La solita apparenza mutante, quella che riluce, quella che vorremmo che fosse schietta.
Quelle serate amene, volte a trascorrere il tempo tra canti e baldorie, quel tempo che da empio e torbido, quasi senza fine, vuol essere convertito in lenimento dell’esistenza.
Dentro l’enorme e magnifico salone di una casa bellissima, la calca, i suoni, le genti, scampanellavano, urlavano, cantavano, e bevevano, riempiendo il vuoto col delirio.
Io e l’ispettore uscimmo fuori, a prendere una boccata d’aria lui, che aveva smesso di fumare, mentre io per sorseggiare qualche tiro di pipa, a goderci il silenzio che ci avrebbe ristorato.
Guardammo il cielo non più piovoso, silente, muto e immobile, fievole e passeggero sollievo a ogni sconforto, come un prigioniero che cerca sempre il firmamento, quasi fosse l’ultima consolazione, il simulacro di una liberazione, o persino la speranza di un viaggio risolutivo lassù dove tutto sembra un’eternità da sempre.
E poi guardammo quaggiù, il muro di fronte, poco illuminato dalle luci della villa, un angolo che era ombra, come ogni periferia inutile e trascurata. Nel giardino di sopra i cani latravano a noi che non li vedevamo, persi anche loro nell’oscurità di quello spazio discosto.
Ora respiravamo un refolo fresco e rivitalizzante, al di fuori di un mondo dispersivo, un mondo in cui uno non esiste, come il mondo di fuori, in cui anche gli abbellimenti hanno il fascino della tristezza, e il travestimento diventa un’evasione dall’apparenza, il dimostrare che uno è qualcosa che non è. Una ricerca e un’abitudine che hanno solo un valore fittizio, in cui l’uomo viene reificato, a guisa di terreno, roba, diceria. “Come se tu fossi quel che fai, come se tu fossi quel che sembri”, aggiunsi io a quel silenzio, che era un vero dialogo melodioso, apodittico e afono.
Lì fuori ci sembrava che la dimensione del tempo e della vitalità fosse diversa, fosse quella autentica, senza più le maschere della sostanza e dell’apparenza, esauste e logore.
Guardammo il cielo ancora una volta, insufflammo ossigeno, io spensi la pipa e sussurrai all’amico: “forza, Roccia dell’Etna, rientriamo nel mondo dei morti, ci aspettano per vivere.”
Joe Oberhausen-Valdez
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