CAPITOLO 2
“ MORTO DALLA TOMBA, A ME!”
“Yuuughhhh, yawn, aarr, orgh…»
Furono questi suoni, cavernosi ed incomprensibili, oltre che un’indefinita sensazione di freddo e malessere fisico e morale, a farmi abbandonare la scura voragine dentro la quale ero sprofondata. Non so per quanto tempo rimasi priva di conoscenza… ore, giorni o minuti. Ero rinchiusa in quel maledetto scantinato, incatenata ad un anello infisso sul pavimento in terra battuta. Dappertutto, accanto a me, vi erano resti dell’empio pasto consumato da quegli esseri immondi. Ciuffi di capelli insanguinati, erano appiccicati alle pareti ed una sostanza, glutinosa e rossastra, formava dei rigagnoli che riempivano le innumerevoli crepe che punteggiavano l’impiantito simili a bocche affamate. Udii dei passi incerti alle mi spalle e l’ombra di una di quelle creature venne proiettata sui muri da una candela che esso teneva in mano. Avvertii una sostanza calda ed appiccicaticcia, colarmi sulla testa allorquando quel coso emise un grugnito soffocato. Cercai di reprimere un conato di vomito e mi resi conto di conoscere il nome proprio di quegli esseri. L’avevo sempre saputo, fin dal primo momento in cui li avevo visti, ma ancora non ce la facevo a formularlo: tutto questo era troppo per me.
«Evadez-vous de lui, salaud!»
Il vocione di Maman Marie, rimbombò come un tuono nello spazio ristretto della cantina. «Allontanati da lei, bastardo!», aveva intimato al mostro ed egli ubbidì. Ero contenta di aver studiato francese con profitto, almeno potevo capire gli ordini che impartiva ai suoi schiavi non morti. Mi guardò con aria sprezzante anche se, nei suoi occhi, vi era una parvenza di comprensione.
«Sapevo che non ci si poteva fidare di una sporca yankee e con radici italiane, per giunta! In questo modo ringrazi chi ti fa del bene? Infischiandotene dei suoi desideri? Brava, davvero! Io ti volevo aiutare perché mi sembravi una persona leale. Ti avevo chiesto di non avvicinarti alle pers…ehm, ai tuoi nuovi collaboratori per risparmiarti tutto questo, perché non eri ancora pronta per conoscere la verità. Ti avrei resa partecipe delle nostre usanze, ma gradualmente. Tu, invece, hai trasgredito all’unica regola che ti avevo posto e ciò mi addolora dato che hai dimostrato di essere un’ingrata ed io odio l’ingratitudine più di ogni altra cosa al mondo», concluse.
Non vi era più alcuna traccia di comprensione nel suo sguardo, ma solo odio. Si allontanò ed afferrò ciò che rimaneva della testa di Tony Bouchard e me la agitò davanti agli occhi, imbrattandomi il viso di sangue e pezzi di carne sfatta e nerastra. La cantina si riempì di un puzzo rivoltante e subito quei maledetti si accalcarono per tentare di strapparmi la faccia a morsi. Ancora una volta Maman Marie li allontanò da me, sferrando un calcione ad uno di essi, forse lo stesso bastardo di prima. Il colpo violento gli fece volare via la mascella sinistra, scoprendogli l’arcata dentaria ed immobilizzandogli il viso in un terribile ghigno, simile a quello di Joker. Si rintanò in un angolo ed iniziò a mordersi le mani.
«Ecco cosa resta del tuo Tony! Guardalo, succhialo se ti va, e ficcati in testa che io sono l’unica capace di tirarti fuori dai guai; se non lo avessi ucciso, tu ora saresti sepolta in qualche palo di cemento o disciolta nell’acido, invece di impicciarti degli affari miei!», urlò, cavando l’occhio destro di quello che una volta era Tony, la testa di Tony, con il pollice piegato ad uncino e ficcandoselo in bocca.
Lo succhiava come fosse una caramella od il più gustoso chewing gum che avesse mai assaporato. Anche la sua espressione, quasi estatica, suggeriva che stesse provando una specie di orgasmo gastronomico.
«Tony era uno stronzo e gran figlio di una bagascia, ma anche la gente cattiva può avere un gran buon sapore!», esclamò, masticando l’occhio ed inghiottendolo.
Io cercai di contenere i conati, ma il mio stomaco era troppo contratto e non gli importava un fico secco del mio autocontrollo. Lasciai così che si ribaltasse e vomitai con violenza. Maman Marie osservò la pozza di vomito che si era formata ai miei piedi, quasi con soddisfazione e chiamò i suoi accoliti affinché lo leccassero.
«Allontana le gambe, se non vuoi ritrovarti a camminare con dei bastoni infilati nelle cosce!», mi intimò, mentre quelli lappavano il mio rigurgito.
«Ch…che ne è di Tony?», chiesi, stentatamente.
Avevo la bocca vischiosa e la lingua mi si incollava al palato. La donna mi guardò come se non avesse capito, poi iniziò a ridere sguaiatamente. La sua risata era acuta e fastidiosa come lo stridere delle unghie sulla lavagna.
«Mia cara a quest’ora si trova nella rete fognaria della Louisiana, o degli Stati Uniti o, magari, pure all’estero. Sai, dipende in quale posto hanno defecato gli avventori del tuo ristorante!», rispose. E stavolta non rideva, ululava di gioia.
«Non capisco…»
«Possibile che a voi, fottuti Yankees, si debba spiegare ogni cosa? Ricordi quella bella carne con cui ti rifornivo per la preparazione delle tue famigerate polpette? E la farina con cui preparavi i tuoi dolcetti? Beh… hai servito polpette e biscotti alla Tony Bouchard… carne e ossa di prima qualità!», rispose, piegandosi in due dalle risate.
Spalancai gli occhi, ricordandomi che anche io avevo mangiato le polpette ed i dolcetti. E li avevo trovati eccezionali. Soprattutto quella carne, così rossa e pastosa che mi aveva fatto guadagnare la mia prima copertina su una rivista culinaria. Cazzo, cazzino e cazzone! Avevo cucinato un uomo e lo avevo pure servito. Oh, Gesù… mi ero cibata di carne umana. Quella constatazione, risvegliò il mio stomaco che produsse un rutto flaccido ma non rigettò nulla. E se adesso fossi diventata una cannibale? Da adolescente avevo letto un racconto dell’orrore nel quale la protagonista mangiava carne umana, a sua insaputa, ma quel gusto le risvegliava appetiti innominabili e di notte andava a caccia per procurarsi il suo cibo preferito ed uccideva ragazzi e bambini a colpi di scure, che poi smembrava in un capanno e li cucinava. L’autrice assicurava che era ispirato alla storia della serial killer cannibale più spietata che fosse mai esistita, Tanya Smith, che terrorizzò lo stato di New York nei primi anni ’70. E se anche io mi fossi trasformata in un simile obbrobrio? No! No! A me non sarebbe successo… ripensai a quei poveretti che avevano gustato le mie pietanze, ai complimenti che avevo ricevuto ed alla copertina su Mademoiselle Cuisine per non parlare dell’articolo lusinghiero dedicatomi da Emily Levin, che aveva mangiato le mie polpette a quattro palmenti. Ripensai a tutto questo e scoppiai a ridere, immaginando la reazione di tutti se una cosa del genere fosse diventata di dominio pubblico. Altro che regina delle polpette, la Levin mi avrebbe ribattezzata La Macellaia del Quartiere Francese ed avrei letto il pezzo su di me, comodamente seduta nella mia cella con vista sul cortile. Forse.
Maman Marie mi si avvicinò ed iniziò a raccontarmi la storia della sua vita, di come a nove anni avesse capito di avere dei poteri speciali, del razzismo subito e dei suoi affari con Tony. Mi disse che era una gran bella cosa fabbricare (si espresse proprio così: fabbricare, non creare) esseri da poter schiavizzare e rendere docili. Confessò che da piccola era cresciuta in una piantagione di cotone ad Haiti insieme ai suoi genitori, entrambi schiavi, ed al servizio di una certa Emma Roberts, una bianca che li trattava come bestie da soma e malmenava con un flagello affinché non dimenticassero la punizione. Prima di morire, sua madre le insegnò l’antica arte della “zombificazione” e le fece promettere che avrebbe imprigionato l’anima di quella bianca bastarda in un corpo inerte ed a lei assoggettato. E Maman Marie, il cui vero nome era Marie Ange Baptiste, apprese tutte le nozioni dei riti vudù e le fece sue. Io ascoltai attentamente e, benché provassi comprensione per le angherie subite, non riuscivo a giustificarla. Ciò che faceva era un atto empio e sprezzante della vita e della dignità umana. Glielo dissi e lei tuonò che io non sapevo un bel niente della schiavitù e di non mettermi a fare la santa della situazione perché non mi si addiceva. Le risposi che il giuramento che avevo fatto in casa sua non valeva una cippa perché non ero cattolica. Udita la mia risposta, rise sguaiatamente e poi mi rampognò per la mia stupidità.
«E tu credi davvero che ti avrei fatto giurare sul Libro scritto dal tuo Dio pietoso? Mi credi così ingenua e stupida? Sono stata beffata molte volte, troppe per poterle contare. Così ho iniziato a cautelarmi. Tu hai giurato sulla mia Bibbia, hai giurato sulle mie divinità. E, ti assicuro che nessuna di esse predica il perdono come Colui che tu veneri. Adesso sei marchiata e non potrai sfuggire, la tua anima è mia e presto lavorerai per me!»
«Io non diventerò mai uno dei tuoi Zombie, mai!», urlai, pronunciando quella parola che mi rifiutavo persino di pensare.
Ero circondata da morti viventi, come nel film di Romero. Peccato non mi trovassi in un centro commerciale, ma solo in quella lurida cantina del cazzo.
«E come riuscirai ad impedirmelo? Vuoi lanciarmi i grani del Rosario? Guardati la mano destra!», concluse, trionfante ed iniziò a salmodiare una nenia: «Morto della tomba, vieni a me!».
Frattanto, la mano che avevo posato su quel libro immondo, iniziò a mutare. Prima era rosea, adesso stava assumendo una colorazione rossastra ed, al centro del palmo, pulsavano due grosse vene nerastre. La pelle iniziò a gonfiare e riempirsi di bolle ed improvvisamente si strappò, lasciandomi un cratere di carne sanguinolenta. Sembrava un buco al centro della terra dal quale provenivano lamenti, gemiti ed anche risate, beffarde e maligne. Mi sembrò anche di scorgere due occhi verdastri che emanavano una sudicia luminescenza. Quegli occhi, poi, si arrovesciarono e dal buio della voragine apertasi nella mia mano, fuoriuscì un verme lungo e sottile che mi si avventò contro e tentò di strozzarmi attorcigliandosi alla mia gola. Mi sentii soffocare ed iniziai a produrre dei gemiti disperati e dimenarmi come un’ossessa.
«Sta tranquilla, non morirai. E’ solo un’allucinazione causata dalla Mucuna Puriens».
La voce di Maman Marie mi giungeva lontana dal limbo in cui ero precipitata. È strano, nonostante fossi in una specie di stato catatonico ricordo tutto alla perfezione. In quel tunnel dell’orrore, non vi era affatto la prevalenza del colore nero. I colori predominanti erano il bianco, il rosso ed il verde acceso. Di queste tonalità erano le vesti della gente che mi circondava; non ero più in quella cantina, ma in uno grande spiazzo aperto. Sembrava un villaggio africano e dappertutto spuntavano minuscole casupole fatte di fango e paglia. Sulla soglia di ognuna di esse vi erano uomini e donne con il volto nascosto da maschere raffiguranti un animale diverso: Leone, Elefante e Serpente. Un refolo di vento portò alle mie narici l’inconfondibile aroma del borotalco con il quale si disegnano i simboli sacri sul corpo. Vidi dei bambini vestiti come angeli, ma con il volto imbrattato del sangue succhiato ad un pollo che avevano sgozzato. Guardando meglio, mi accorsi che non erano bimbi, bensì nani deformi. Mostriciattoli dalle mani adunche e dalla carne sfatta che pendeva dai loro volti. Si dirigevano verso di me, le bocche spalancate da cui facevano capolino denti marci e storti come vecchie lapidi cadenti. Cercai di fuggire, ma la catena a cui era legato il mio piede sinistro me lo impedì.
«Yaurghhh, Oghhh…»
Sentivo i loro maledetti versi mentre si avvicinavano. Chiusi gli occhi per non dover guardare le mie carni straziate, ma non mi fecero nulla. Urlai, ma essi gridarono più forte di me ed uno di loro mi conficcò un dito insanguinato in bocca affinché lo succhiassi. Io feci finta di ciucciarlo e gli assestai una violenta morsicatura, staccandogli mezza falange che poi gli sputai addosso.
Si dice che gli Zombie non abbiano sentimenti, che siano solo carne marcia che cammina… beh, questo mi guardò con odio ed anche con dolore. Non dimenticherò mai il suo sguardo. Ebbi paura che mi uccidesse, invece se ne andò. Poi iniziò la musica, un suono di tamburelli e fischietti, e tutti iniziarono a muoversi freneticamente. L’aria viene ben presto permeata dall’aroma di incenso e benzoino ed alcuni di loro eseguono piroette in aria.
Prima che il buio calasse su di me, ricordo di aver avvertito un forte sentore di fumo ed udito delle urla disperate.
Mi risvegliai parecchie ore dopo al Sacred Heart Hospital; una flebo era attaccata al mio braccio e, dai macchinari accanto al mio letto, proveniva un bip bip che scandiva le mie funzioni vitali. Seduta sulla sedia vicino a me, c’era la commessa dell’erboristeria. Stava guardando un western alla TV appesa alla parete, ma si girava ogni minuto per controllarmi. Io le feci un debole sorriso che riuscì a spianarle il volto, teso e preoccupato. Ero stupita di vederla li. Dal nostro ultimo incontro, accanto alle siepi di oleandro, mi era parso di capire che non le dovevo risultare parecchio simpatica. Con la mano libera da tubi e tubicini, mi strappai la maschera dell’ossigeno e cercai di articolare qualche frase, ma lei mi fece cenno di stare zitta perché mi avrebbe spiegato tutto in un secondo momento ed in ben altro luogo. Purtroppo, dopo che se ne fu andata, quella sera stessa, non la rividi più. Tuttavia, grazie alla ricostruzione fatta dal quotidiano locale, seppi che un corto circuito aveva causato un incendio nella cucina e che le fiamme si erano propagate in tutto lo stabile. Nell’articolo si evidenziava il fatto che non vi fossero state vittime ed io mi chiesi che fine avessero fatto Maman Marie ed i suoi zombie. Per mia fortuna, il locale era assicurato così dopo i rilievi che motivarono come “accidentale” la natura dell’incendio, fui risarcita con una discreta somma che usai per fuggire da New Orleans e la Louisiana.
Non avevo, però, nessuna intenzione di tornare a casa e mi diressi verso la soleggiata California.
CAPITOLO 3
UNA NUOVA VITA.
A Los Angeles, cambiai nuovamente nome e mi feci chiamare Lisa Meyer, sperando così di sfuggire a Maman Marie. Sapevo che non era morta ed immaginavo che mi avrebbe cercata per pareggiare i conti; dopotutto, io ero una mina vagante e costituivo un serio pericolo per le sue attività. Non avevo nessuna intenzione di denunciarla, anche perché non desideravo finire i miei giorni in una cella imbottita e, se avessi spifferato a qualcuno ciò a cui avevo assistito, mi sarei ritrovata in manicomio prima ancora di accorgermi di esserci finita!
A Los Angeles, cercai di mantenere un profilo basso ed iniziai tutto daccapo. Trovai lavoro come aiuto cuoca in un ristorante di West Hollywood, Bella Italia, che era gestito da una famiglia siciliana, alla quale non rivelai nulla di me e mantenni le distanze dai miei colleghi. Fui presto accusata di essere una snob con la puzza sotto al naso e divenni, mio malgrado, il loro zimbello. Ma non m’importava: non li calcolavo, e la sera tutto quello che volevo era stendermi sul letto ed abbandonarmi ad un sonno senza sogni.
Ben presto, tuttavia, la solitudine iniziò a farsi sentire ed i brutti ricordi iniziarono ad affollarmi la mente che li tramutò in incubi e spiacevoli sensazioni. Quando mi appisolavo, vedevo il faccione di quella donna che sembrava sospeso sopra di me. Aveva le labbra rosse e carnose, simili a quelle di un orrendo clown, e mi sussurrava che presto sarebbe venuta a prendermi poiché sarei stata una dei suoi zombie e mi avrebbe mandata nella sua piantagione di canna da zucchero ad Haiti, dove avrei lavorato per lei. Il sogno continuava con lei che mi prendeva la mano destra e ci si infilava dentro, sghignazzando. Riemergevo da quell’abisso di orrore con la certezza che quell’essere fosse annidato dentro di me, come un fetido tumore da estirpare ad ogni costo. Mi controllavo la mano destra con una minuziosità quasi maniacale, attenta a scorgere il più piccolo segno anomalo. La controllavo una volta al giorno e tiravo sempre un sospiro di sollievo allorché mi accorgevo che essa era perfetta come lo era prima della mia disavventura.
Feci questo per ventinove giorni, ma il trentesimo dalla mia bocca eruppe un lamento strozzato poiché mi accorsi che la pelle si stava squarciando e, da una fenditura, che pareva la Faglia di Sant’Andrea, un occhio dall’iride rossastra mi fissava con malvagio trionfo.
«Pensavi sarebbe bastato cambiare nome per sfuggirmi? Mi spiace carina, con me i tuoi squallidi trucchetti non funzionano. Io e te siamo legate e nulla spezzerà il filo che ci unisce perché esso è stato dipanato dalle mani delle mie divinità, antiche quanto il cosmo. Io sono dentro di te: sono il tuo feto, la tua appendice e non me ne andrò».
Udii tutto questo e…mi svegliai urlando. Era un incubo ed un attento controllo della mano me lo confermò. Quello spavento mi mise una gran fame e divorai tutto quello che avevo in casa, prima di dirigermi al ristorante.
Quel giorno aspettavamo un grosso carico di carne ed io, grazie alla mia qualifica di macellaia, ero incaricata di occuparmi di tutto. Il gestore della fattoria Verdi Pascoli che riforniva una dozzina di ristoranti, mi consegnò uno splendido manzo intero, dalla carne rossa e davvero invitante. Appena lo vidi feci un fischio poiché riconobbi la razza dell’animale: era la Chianina, una delle migliori carni italiane. George Sands, il proprietario della fattoria, mi guardò con ammirazione e si vantò dicendo che il suo allevamento era l’unico a poter vantare simili capi di bestiame. Mi aiutò a sistemare la bestia sull’enorme bancone in noce e se ne andò, lasciandomi al mio lavoro. Dovevo tagliare la carcassa in pezzi e sistemarli nel congelatore. Presi la motosega ed iniziai a squartarla. Guardai il mio riflesso su un ripiano in acciaio inox e mi sembrò di essere la controparte femminile di Leatherface! Recisi un’arteria ed un debole getto di sangue, mi inzaccherò il camice.
Non so cosa successe ma l’odore, il colore del rosso liquido,fecero scattare qualcosa in me… come un interruttore che si pigia all’improvviso. Un appetito ed una sete prodigiosa mi obnubilarono i sensi ed io affondai la testa in quell’ammasso di carne ed iniziai a mangiarne. Staccavo grossi bocconi con gli incisivi, che tagliavano tendini ed ossa come fossero fatti di burro. Il sangue che sprigionava dai muscoli del collo, mi inondava la bocca e scendeva in gola come la più dissetante delle bevande. Io bevvi, estatica quel rosso nettare dalla coppa della Morte perché era quello, ormai, il mio vessillo. Avvertii un rumore furtivo alle mie spalle ed alzai la testa, il mento gocciolante mi sporcava le crocs bianche che calzavo quando lavoravo.
I miei occhi dardeggiarono in direzione di colei che mi aveva ridotta ad essere una depredatrice di carogne, anche perché sapevo che presto gli animali morti non avrebbero soddisfatto la mia fame. Maman Marie si stagliava dritta davanti a me, simile ad un Dolmen. Mi osservava compiaciuta mentre mi asciugavo le labbra dal sangue e dai brandelli di carne attaccati ad esse, con la manica del camiciotto.
«Sapevo che presto ti saresti unita a noi. Non mi ero sbagliata su d te, chissà cosa direbbe la tua famiglia in Nebraska, se ti vedesse ora!», Concluse, trionfante. Purtroppo aveva ragione; non ero stata abbastanza forte da respingere la sua Magia, ma potevo evitare che reclutasse altre ragazze disperate come me. Incanalai l’odio e la tristezza che provavo verso di me e mi avventai su di lei, con la motosega accesa alla massima velocità.
La feci a pezzi proprio come quel bue; l’odio e l’adrenalina mi permisero di compiere quell’atto così esecrabile con la massima precisione. Per fortuna, quello era il giorno di riposo settimanale del ristorante, il giorno in cui si ricevevano i fornitori di carne. Ero sola e potei pulire dappertutto con acqua fredda ed un potente sgrassatore industriale che eliminava macchie di ogni genere e permeava l’aria con una fresca fragranza oceanica; proprio per questo era usato nelle sale autoptiche. In meno di tre ore, avevo ripulito tutto il sangue dal pavimento di ceramica grazie al potente getto dell’acqua che sgorgava da una pompa e fluiva nel tombino sottostante il banco da lavoro. Avevo sistemato gli arti di Maman Marie su un telo trasparente che poi avrei bruciato ed eliminato. Accesi il trituratore, una grande macchina di acciaio che somigliava ad un troll, e vi gettai dentro le gambe e le braccia. In pochi minuti, venne fuori una grossa quantità di macinato che sistemai nei contenitori e riposi nel congelatore. Feci lo stesso anche con il tronco e la testa. Quest’ultima mi diede un po’ di problemi perché avevo dimenticato di scalparla, ma, tutto sommato, il risultato finale non fu malaccio dato che i capelli furono ridotti in polvere e la materia cerebrale si mischiò alla carne e ne venne fuori una crema pastosa, di colore rosato. Pensai che con una grande quantità di salsa di pomodoro, spezie ed olio di oliva, avrei potuto creare un’ottima salsa per accompagnare piatti di verdure o cacciagione. Chissà, se fosse piaciuta, avrei anche potuto brevettarla. Avevo anche trovato il nome: La buona salsa di Maman Marie.
Guardai l’ora e vidi che era ancora presto. Poiché non avevo voglia di tornare a casa, mi venne in mente di preparare le mie polpette… la carne non mancava di certo! Mentre le impastavo, mi venne in mente di proporre ai proprietari di servirle il giorno successivo come primo piatto. Ero sicura che avrebbero riscosso un gran successo ed un giorno, non troppo lontano, il ristorante Bella Italia sarebbe stato mio. Con un altro nome, naturalmente. E non mi sarei limitata solo alla ristorazione, ma avrei aperto anche una macelleria.
Come chiamarla?
Ma è ovvio: Da Maman Marie Carni Di 1°Qualità…