– Ma tu non avevi paura?
– Io?
Sembrava un sogno, sembrava un incubo da cui nessuno si sarebbe svegliato. Con gli incubi avevo dimestichezza, forse l’incubo ero io, forse pure questa volta?!
Quel che creavo e poi distruggevo, quel che speravo fosse perfetto, si rivelava sempre infausto, dannato, ingrato, e soprattutto inutile.
Accesi la televisione perché c’era un prete dai paramenti sfarzosi e sacri che invocava l’aiuto della divinità, per salvare i cristiani dal dolore, dalla malattia, dalla scomparsa; quell’uomo, ricco, anziano, pregava sotto la pioggia in una piazza deserta come mai era stata vista prima. Lui troneggiava al buio, ma con centomila riflettori e telecamere puntate addosso, in un punto che davvero appariva come il luogo prescelto ed edificato da e per un dio.
Avrebbe comunicato con l’entità più solenne da colossi di marmo, con un’ipocrisia evidente.
Quindi, grazie al papa, l’infermità quella sera sarebbe finita.
Così pensai ironicamente.
Ci credevano un po’ tutti, perché quando un animale antropomorfo ha paura, quando sprofonda nell’angoscia, quando capisce che ad ogni ora potrebbe essere il suo turno, quando trema al pensiero di fare un viaggio di sola andata verso un posto da cui non sa se uscirà vivo, allora scatta il terrore, l’uomo non vive più, si paralizza in tormenti che potrebbero essere non solo mentali ma anche fisici.
Io sdrammatizzavo, non ero mai stato serio in vita mia, perché dovevo cominciare ora o allora?!
La preghiera del super-parroco era l’immagine della teatralità più bieca, adorna di strumenti scenografici sparsi nel buio della notte, tra la pioggia scrosciante e un silenzio terminale, opprimente, la coreografia volta a continuare in mondovisione solo la propria apparenza indispensabile.
Sarebbe stato più genuino guardare una vigna o il cielo, invocando uno spirito montano, agreste o perfino celestiale. Lì, con quella vista, quegli alberi, quelle stelle, qualche divinità avrebbe ascoltato la preghiera, che forse avrebbe avuto un senso ed efficacia, ma non per milioni di cretini concentrati nell’omelia di un impostore.
Eppure il risultato non sarebbe mutato.
Il male non sarebbe finito quella sera, che fossi io a declamare poesie o un altro vestito con una divisa più eccentrica della mia. Era già tutto deciso, come ogni buon destino. Era già tutto irrevocabile.
Il volgo ci credeva, almeno a lui o a quello che biascicava sotto forma di litania in un italiano sudamericanizzato.
A poco valeva che quel predicatore avesse nella sua dimora le ricchezze in oro più considerevoli, la facoltà più veemente e sonora per potere veramente dare un contributo notevole alla guarigione, all’acquisto di macchinari per gli ospedali, a interventi mirati a risollevare la vita e l’economia; non solo di una nazione ma di interi popoli.
Ciononostante, i fedeli credevano in lui e nella sua opulenza millenaria, intenzionata solo alla continuazione di un potere che soggioga le masse, le deumanizza, e le riduce ad armenti silenti.
Io non sto parlando di un uomo ma di un’istituzione, di una droga, di un metodo che da secoli frena la salvezza temporanea, almeno quella terrena, non ovviamente quella oltremondana; di un giogo che riduce le belve cacciatrici a quadrupedi che saltano sullo sgabello, vi si assestano immobili e danno la zampetta al domatore.
Avevano bisogno dell’illusionista. E, come in ogni buon circo che si rispetti, alla fine sempre in gabbia tornavano, senza libertà, senza ali e senza dignità di spiriti liberi.
La gente in casa stava impazzendo, sclerava, partoriva le cose più insensate, cucinava affogandosi in pasti luculliani, non sapeva più chi era. Si guardava allo specchio e quasi non si riconosceva, giacché gonfia, ingrassata come maiali sovralimentati, depersonalizzata, alla ricerca di scopi giornalieri che non poteva avere, in quanto non ne aveva mai avuti.
Ammattiva perché aveva procreato figli come incubatrici o catene di montaggio, pensando che divenissero balocchi e diletti semoventi, e ora doveva badar loro perpetuamente come gli ergastolani nella stessa cella che si annoiano e sclerano se non giocano a carte, per passare un tempo che non ha una fine, non ha un fine, se non quello di poter scandire la giornata in mattina e sera.
Fortuna che c’erano gli insegnanti e la scuola che occupavano genitori e prole, mandando compiti ai ragazzi, perché l’anno di studi avrebbe comunque avuto un compimento, quindi occorreva impegnarsi, buttare gli occhi e le ore su quegli inchiostri, che avrebbero comunque assicurato la maturità, il diploma o altre carte similari.
Altri si ergevano con voce stridula, gracchiante, isterica, sul balcone di un condominio che sbuca sotto il ponte di qualsiasi ferrovia urbana, dove l’aria è fetente, e gli edifici sono alberi immensi; ad attaccare il sistema, i decreti, le forme di contenimento per arrestare il virus, sproloquiando di economia e di salvezza, quando non sarebbero stati capaci neanche di mettere un verme nell’amo, ma solo di mangiare sushi.
Pensavano che quell’incubo, o quella carcerazione, sarebbe ben presto passata.
Ma noi sappiamo che così non fu.
– E che successe dopo?
Innanzi tutto capirono che dolersi non sarebbe servito a niente, se non a illudersi, momentaneamente. La speranza sarebbe durata poco. Capirono che il loro dio o non esisteva o questa volta – non sempre – era veramente rabbioso, imbestialito e soprattutto incazzato.
Alcuni sostennero che la clemenza e la guarigione non avrebbero potuto avvenire, e non sarebbero arrivate, in quanto la divinità era adirata col mondo, che occorreva punire. Ognuno, infine, ci vide quello che voleva. Non era un problema mio. Io avrei saputo come risolvere la pandemia e la distruzione, ma non volli; deliberai diversamente dalla volontà di tutti, ed eseguii la mia vendetta, poiché al postutto era una maledizione, era una nemesi.
I fatti e la storia testimoniano che ciascuna nazione si strinse nel proprio egoismo, in una catastrofe che credeva di poter risolvere con teorie eccentriche, piani ridicoli, e altre strategie disperate.
A nulla servirono i tentativi di contenimento, le quarantene, le guarigioni, i medici che si ammalavano per salvare i contagiati; i risanati tornavano ad essere preda del virus, finché gli ospedali non furono saturi di cadaveri, punti di proliferazione della morte, e le città si trasformarono in cimiteri a cielo aperto.
Chi poteva si rintanò nei posti più impensabili, cercando di sfuggire a quella che sembrava davvero una maledizione divina, un’apocalisse, anche se per essere chiari era un semplice ritorno allo stato originario, non degli uomini, ma del mondo, la restaurazione di tutte le cose.
I sopravvissuti si barricarono in casa, nelle fogne, nei tribunali, fino a quando ebbero di che mangiare, giacché in seguito furono costretti a uscire per saccheggiare tutto quello che potevano, ammassandosi in mandrie spontanee, senza capi e neanche uno scarso piano di sopravvivenza. Razziarono tutto quello che poterono, ma ben presto i negozi e i depositi terminarono le provviste, e allora si spinsero in campagna, in cerca di legna per scaldarsi, frutti e animali da cacciare. E poi si mangiarono tra di loro.
Non tutti i superstiti erano pronti e addestrati alla sopravvivenza, non erano più uomini, erano ormai solo manager, impiegati, venditori di case, per cui finirono nel peggiore dei modi, ponendo fine alle loro misere vite di peccatori, di commercialisti, di avvocati, di infermieri, politici e il resto appresso, piangendo come vitelli, gli stessi vitelli che giornalmente mandavano nei campi di sterminio.
Come poteva un dirigente andare a caccia con arco e frecce, piazzare trappole, costruirsi un riparo, vivere di agricoltura?!
E così, dopo l’angoscia, la malattia, il dolore, la carestia, la sofferenza, si abbandonarono a una lenta consunzione, espiando con atrocità quei peccati che credevano di aver commesso contro un’entità soprannaturale. Ne erano certi loro, ne ero certo anche io.
Ormai credevano veramente che fosse il castigo che meritavano; e così molti, in fin di vita, si pentirono, chiedendo intercessione, un miracolo, una nuova sorte per la prossima esistenza, ancora una possibilità. La mendicarono al Cielo, che non li ascoltò.
Non ci sarebbe stata un’altra vita. Essa finiva lì e finiva quel giorno, concludendosi per tutti, o quasi.
In quel mondo l’umanità aveva fallito.
Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».
E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne.
Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
E lì, nella Creazione, questa volta mi fermai.
Joe Oberhausen-Valdez