Le mani del mio amico Henry, erano livide e sporche. Le sue unghie erano diventate lunghe e acuminate. L’infezione avanzava inesorabile…
La bestia, lo aveva ferito profondamente su di una spalla. Il morso aveva dilaniato la carne di cui il non morto, prima che intervenissi io, si era avidamente cibato.
La domanda che sbatteva, come un treno in corsa nel mio cervello, era la seguente:
<< Henry, si sarebbe salvato?>>
E ancora:
<< Era giusto, in quel caso, uccidere un infetto? >>
Si, mi rispondevo, era l’unica cosa da fare. Impedire di venire in qualche modo sbranati e trasformati in mostri era l’unico dovere per difendere la razza umana. Il mondo intero combatteva questa guerra senza sosta, fra infetti ed esseri umani, difficile stabilire il confine, ma Henry… Henry non lo si poteva uccidere. Io…
Io non potevo…
No! Mi ripetevo. Non era infetto, o comunque sarebbe guarito, perché, fino a prova contraria, potevo salvarlo!
Questo pensiero mi attraversava la mente in ogni momento. In ogni istante. Henry, era stato morso, ma non era ancora infetto. Non era ancora uno Zombie.
Il suo corpo agonizzante poteva guarire e io ne ero ancora convinto. Dovevo fare qualcosa!
<<Aiutami!>> biascicò.
Cosa fare?
Presi dell’acqua. Una caraffa di acqua fresca. Chiusi il rubinetto, sempre tenendo d’occhio Henry e gli versai un bicchiere.
Era ancora umano.
<<Bevi!>>
<< Aiutami! >>
Mi chiese con un filo di voce roca e prese il bicchiere, con quelle mani sporche, con quelle unghie che sembravano artigli. Lo portò alla bocca e bevve avidamente.
I suoi occhi erano diventati di un rosso nerastro, quasi senza più l’iride e assomigliavano a quelli degli animali feroci che si trovano negli abissi degli oceani.
<<Ho fame!!!>> rantolò.
Già! Pensai…
Mi mossi lentamente, senza perderlo di vista e d’istinto presi qualcosa dal frigo.
Trovai della carne cruda e ingenuamente sentii che forse quella, lo avrebbe potuto calmare, metterci una pezza, insomma, e allora…
Preparai il piatto e lo misi sul tavolo.
<< Mangiamo Henry >>
Lui sbavò, vedendo la carne e si mosse, lentamente.
Si mosse, per quel poco che poteva, data la ferita e sollevò il braccio e poi, d’improvviso, l’avventò sul boccone, con un ruggito.
Aveva preso, con un solo gesto, più della metà del piatto quasi sfiorandomi con quegli artigli poderosi.
<< Henry!!! >> Mi affrettai ad ammonirlo, ma lui scosse il capo e tornò ad accovacciarsi nel suo angolo, come se in qualche modo stesse pensando, riflettendo su di sé Poi, violentemente, quasi ferendosi il viso per la frenesia, portò la carne alla bocca.
Come se l’avesse rubata e dovesse consumarla velocemente.
Diede un morso feroce a ciò che aveva in mano grugnendo e sbattendo la testa.
Difficile spiegarlo altrimenti, ma si era letteralmente avventato sul quel pezzo di carne come una iena avrebbe potuto fare su di una carcassa alla presenza di un leone minaccioso.
Ma poi, finito il pasto, tornò a fissarmi.
Aveva gli occhi feroci e sembrava più coscio delle sue forze e d’istinto, io, misi la mano sulla pistola.
L’arma, inserita in una fondina per cintura esterna, era una full size Glock modello G17 con un caricatore da ben 17 cartucce. Pratica, veloce e facile da usare.
L’avevo trovata in un’armeria abbandonata, pochi giorni dopo lo scoppio di questa assurda malattia.
Per un attimo ci fu il silenzio…
Henry, con gli occhi ormai di sangue, ed io, con la mano sulla pistola.
Fu allora che compresi, inevitabilmente, di essere di fronte ad una scelta. Il passato non contava più. Non contavano più i valori in cui avevo creduto fino a pochi secondi prima.
Una scelta, una semplice scelta, divideva il mondo in due.
<< O io o lui!>>
Henry si mosse verso di me, ma subito si fermò. Rimise la mano nel piatto e nuovamente, con un gesto più lento della volta precedente, riportò la carne che era rimasta alla bocca.
Masticava e mi guardava.
Mi stava studiando, pensai, e trovai la cosa incredibile, eppure era così. Mi stava studiando esattamente come un’animale feroce poteva fare con la sua preda.
Lentamente si mosse un’altra volta.
Quell’essere, che fino a pochi secondi prima credevo il mio migliore amico, ora si muoveva, lento e minaccioso verso di me.
La sua vista questa volta mi gelò il sangue e dovetti fare uno sformo enorme per non cadere sotto il peso magnetico di quello sguardo che sembrava in grado di paralizzarmi.
Mi destai. Cosa mi stava accadendo? Scrollai il capo e finalmente, lo vidi!
I suoi occhi erano diventati famelici. I suoi movimenti lenti e misurati stavano cercando l’attimo giusto per attaccare ed in breve, successe…
Di scatto il mostro si alzò e ruggì, come se stesse combattendo con la parte più profonda e oscura di sé stesso.
Vidi, per una manciata di istanti, la sua trasformazione.
Il suo volto livido era diventato una maschera cadaverica violacea e demoniaca.
Gli occhi erano completamente spariti in quel rosso nerastro avido di sangue.
Le mascelle erano diventate enormi.
Una bava giallastra colava prepotentemente dalla sua bocca, come se l’infezione stessa, volesse uscire dalle viscere profonde di quel cadavere per divorare ogni cosa.
Il terrore. Il terrore più di ogni altra cosa prevaricò a tal punto la mia anima che, in una frazione di secondo, balzai all’indietro evitando fortunatamente il peggio.
Non avevo scelta. Estrassi veloce la pistola dalla fondina.
Il mostro, che non era andato a segno, si voltò e ruggì verso di me.
Strinsi forte l’arma con entrambe le mani e lo puntai…
<<O io o lui! >>
Chiusi gli occhi e aprii il fuoco.
Un lamento terrificante si levò verso il cielo e poi il silenzio e il mio sguardo pieno di paura tornò sull’arma, ancora fumante, stretta fra le mani.
Un respiro lungo e profondo mi riattaccò alla vita umana. Buttai fuori l’aria e guardai ciò che avevo appena fatto.
Avevo ucciso l’ennesimo Zombie. Tanti ne avevo fatti fuori nella mia vita. Tanti ne avevamo uccisi io ed Henry.
Il cerchio si apre e il cerchio si chiude, pensai….
Bruciai il cadavere dello Zombie che aveva divorato Henry dall’interno, strappandogli l’anima e il cuore.
Con una tanica di benzina cosparsi il corpo e la vecchia casa.
Fiammifero, un gesto sicuro e poi… l’incendio.
Mentre guardavo, dalla strada polverosa, le fiamme che divoravano tutto quello che un tempo mi apparteneva, con un rametto incisi un cerchio sul terreno. Era l’ultimo ricordo di Henry, un vecchio gioco che facevano spesso da bambini, disegnare sulla sabbia dei grandi cerchi di confine.
Lui era il più bravo. Riusciva con un salto ad entrare nel tuo cerchio e neanche te ne accorgevi.
Lascia cadere il rametto a terra.
Avrei portato Henry sempre con me, da essere umano, nel mio cuore.
Non c’era più ragione di piangerlo.
Il sole all’orizzonte appariva lontano e immenso come un miraggio.
Eravamo arrivati al posto di frontiera chiamato <<Casa N°26>>
Lì finiva la zona rossa tracciata per contenere il contagio.
Henry, pensai, mio dio, ci eravamo quasi riusciti.
Sulla palizzata, che divideva con una rete di metallo le due aree, regnava un corvo nero grande come un’aquila reale.
Infondo Henry aveva fatto tutto il possibile per arrivare da questa parte del confine ed era mio dovere continuare.
Passai il cancello e la squadra dietro di me lo richiuse.
Avevo tracciato, senza volere, l’ultimo cerchio ed ero ancora vivo.
Il confine, un tempo, il nostro gioco da valicare, ora mi proteggeva. Una nuova vita, ignota, mi si proponeva davanti e forse nulla sarebbe più stato come prima.
Edoardo Andrea Depaoli