di Nicola Furia
“Cesare, aiutami ti prego!”.
Gli strilli dell’infermiera biondina, addetta alla reception del Pronto Soccorso, riecheggiano disperate nell’ampio androne dell’Ospedale trasformatosi in una bolgia infernale. Le sue grida isteriche si amalgamano fondendosi con gli urli di dolore, gli strepiti convulsi e le invocazioni di soccorso che rimbombano nella sala di ingresso del nosocomio generando un frastuono orrendo.
La ragazza implora l’aiuto di Cesare, mentre un omone obeso la tiene schiacciata a terra con la sua massa adiposa tentando di strapparle la faringe con i denti.
Cesare sono io… e per quello che mi riguarda quel pazzo può sbranarla completamente. Non metterò di certo a rischio la mia vita per salvarle il culo, anche se, devo ammettere, si tratta di un deretano veramente notevole.
Sì, mi chiamo Cesare, come il famoso imperatore romano. Fu mio padre ad affibbiarmi questo nome rivelando così la sua passione per la storia dell’antica Roma. Non che fosse uno studioso, tutt’altro. Era ignorante come una capra e le sue conoscenze storiche si basavano sui film di centurioni e gladiatori che vedeva da ragazzino nelle sale cinematografiche della Capitale che proiettavano film di terza visione. All’epoca quei lungometraggi in costume li chiamavano “sandaloni” ed erano di una noia mortale. Anche io, malgrado l’impegnativo nominativo che mi porto appresso, non ho mai dimostrato alcun interesse per le vicende dei miei antenati. L’unico aforisma latino che mi è rimasto impresso e che ha caratterizzato tutta la mia vita è solo uno: “mors tua vita mea”.
Ve lo dico subito, così evitate di empatizzare con me, sono un bastardo figlio di puttana ad alti livelli. Provenendo da una famiglia povera e disonesta e abitando in uno dei peggiori quartieri degradati di Roma, sin da ragazzino ho dovuto combattere per evitare di farmi schiacciare da questa società di squali e figli di papà. E devo ammettere che sono diventato veramente bravo, un vero stratega nell’arte della sopravvivenza. Non ho mai pianto per i calci in faccia che ricevevo, anzi ho sempre ringraziato il bullo di turno che mi spaccava la faccia, o il maestro che mi umiliava davanti ai miei coetanei. Incassavo, imparavo la lezione e diventavo sempre più forte e più furbo. In breve tempo ero diventato io il peggior bullo della scuola, “er più” del quartiere, quello che rubava le merendine e i telefonini ai pischelli dopo avergli fatto il “cappotone”, o che non aveva alcuna remora nel far scattare la “molletta” che mi portavo sempre appresso, poggiando la lama affilata del coltello alla gola del malcapitato di turno che si permetteva di reagire.
No, vi prego, non pensate a me come ad un troglodita violento e sanguinario, le mie tecniche sono sofisticate e passano dal tradimento, all’inganno fino ad arrivare al sopruso e all’opportunismo più sfrenato. Solo fregando il prossimo me la sono sempre cavata nella vita. Gli “altri “per me sono sempre stati ostacoli da rimuovere o pedine da utilizzare per raggiungere i miei scopi. Io sono quello che vi frega il parcheggio fregandosene del fatto che state già lì a far manovra, colui che transita regolarmente sulla corsia d’emergenza evitando così la fila in autostrada, quello che con uno spintone vi passa davanti all’ufficio postale o che vi punta gli abbaglianti in faccia di notte. Insomma, il classico stronzo.
Grazie a queste tattiche, all’assenza di qualunque scrupolo, ho sempre ottenuto quello che volevo e anche stavolta, anche stamattina, in mezzo a questo casino che è scoppiato, me la caverò alla grande.
Non so bene cosa stia succedendo, ma appena sono arrivato in Ospedale per prendere servizio, non ho fatto in tempo a parcheggiare la macchina, ovviamente in seconda fila, che, nel fare ingresso nella struttura ospedaliera, ho assistito all’irruzione di un gruppo di scalmanati fuori di testa i quali hanno aggredito a mani nude infermieri, dottori e pazienti. Non ho mai visto nella mia vita una ferocia simile, e sì che di violenza ne subita ed esercitata tanta. Eppure, queste persone sembrano folli di rabbia, strappano la carne a morsi. E non si tratta di delinquenti o balordi di strada, quelli pure li conosco bene. Sono persone comuni, insignificanti, prede divenute all’improvviso predatori. Non ci metto molto a comprendere che si tratta sicuramente di una malattia virale diffusasi in qualche modo nell’aria. Ve l’ho detto, sono una persona truce e violenta, ma non un coglione. Anzi, non per vantarmi, ma ho un’intelligenza superiore alla media.
La biondina non urla più, il sangue che le ostruisce la gola le permette di emettere solo dei patetici gorgoglii mentre il mostro ciccione si ciba di lei. Sapete perché stava chiedendo aiuto proprio a me? Credeva che io fossi uno di quei tanti paladini fessi e stupidi, pronti a sacrificarsi per gli altri. Che idiota! Ma d’altronde ero stato proprio io a farglielo pensare. Una settimana fa, dopo essere stato assunto come infermiere professionale in questo Ospedale, l’avevo subito adocchiata e me l’ero portata a letto. Per farmi notare da lei, approfittai della presenza di un paziente scontroso e aggressivo che la stava insultando lamentandosi dei lunghi tempi di attesa. La poverina era in difficoltà e così intervenni mettendo a posto quel cretino con il mio comprovato atteggiamento minaccioso. Ovviamente il mio scopo era solo quello di rimorchiare la pollastrella che non la smise più di ringraziarmi e accettò il mio invito a cena.
Eh già, avevo proprio bisogno di una scopata degna di questo nome con un bella fica. Per tre lunghi anni sono stato costretto a spazzolare la fregna di una zitella tardona e romantica. Era la mia professoressa nel corso di laurea in scienze infermieristiche che dovevo superare per essere assunto. La circuii abilmente regalandole ore di sesso acrobatico mai neanche immaginate dalla poveretta. Grazie alle mie performance, la gallina vecchia, oltre al buon brodo, mi passò tutte le domande dei test e mi scrisse lei stessa la tesi di laurea promuovendomi a pieni voti. Quella rincoglionita si innamorò perdutamente di me e quando, dopo averla sfruttata, l’abbandonai, cadde in profonda depressione tentando finanche di suicidarsi. Che idiota! Ma come poteva pensare che un bel manzo come me se la trombasse con sentimento? Peggio per lei. Per fortuna il mondo è pieno di cretini.
Una massa di cretini come lo sono tutti questi che ora fuggono dalla baraonda cercando di uscire dall’Ospedale. Che idioti! Ma se la minaccia è arrivata da fuori è ovvio che le strade non sono sicure. Ve l’ho detto, io sono sempre una spanna sopra agli altri. E così fuggo controcorrente. Stringo nella mani le chiavi che mi salveranno e, dopo aver mandato a gambe all’aria con uno spintone uno dei tanti pazzi feroci che mi sbarra la strada, imbocco le scale che mi porteranno ai piani superiori.
Sulla rampa incontro il dottor Rosselli. Anche lui, dopo essere stato morso alla spalla, invece di lanciarsi fuori dall’edificio ha salito le scale quattro a quattro per trovare un rifugio. Ora però sta lì, sull’androne, pallido e immobile. Appena mi vede arrancare volge su di me i suoi occhi catatonici e, ringhiando, cerca di afferrarmi. E’ in quel momento che capisco tutto! E’ impazzito. Questa malattia è un virus che si trasmette con i morsi e trasforma le persone in folli omicidi. Se non voglio diventare anche io una bestia demente devo evitare di farmi infettare. Senza stare a pensarci su estraggo la mia inseparabile “molletta” dalla tasca dei pantaloni e gliela conficco nella gola. Fottiti imbecille!
Rosselli si becca la coltellata senza alcuna reazione. E’ come se non se ne fosse neanche accorto. A quel punto lo afferro per il camice insanguinato e lo lancio giù dalle scale. A mali estremi, estremi rimedi.
Che cazzo sta succedendo? – mi chiedo riprendendo a salire le scale in tutta fretta. Questi assassini non avvertono il dolore come se…fossero già morti. Mi rendo subito conto che sto scapocciando. Calma, Cesare, che cazzo vai a pensare? E’ sicuramente l’adrenalina messa in circolo dal virus a produrre questi effetti. Anche io, quando mi faccio le mie quotidiane pippate di cocaina, ho le stesse sensazioni.
Annaspando con il fiato corto, arrivo finalmente all’ultimo piano. Ora non mi rimane che superare il corridoio e raggiungere così l’unica stanza blindata dell’Ospedale dove mi barricherò in attesa dei soccorsi. Solo io possiedo le chiavi di quel reparto e non ho la minima intenzione di condividere la mia sicurezza con nessuno. Che si fottano tutti!
Ma mi attende un’amara sorpresa. Nel corridoio brancolano almeno una decina di pazzi assatanati in cerca di vittime in cui affondare i loro denti.
“Cesare, uniamo le nostre forze e affrontiamoli!” – sento dire dietro di me. Mi volto e riconosco il professore Guidi, il primario del reparto. Anche lui ha il fiatone e il volto stravolto dall’orrore. Ha avuto la mia stessa idea e ora mi propone un’alleanza per attraversare indenne il cunicolo infestato dai demoni. E’ proprio vero, la fortuna aiuta gli audaci. Mi rallegro di questo fortuito incontro e sorridendogli gli dico: “Professore, lei vada avanti. Io le vengo dietro proteggendole le spalle. Insieme possiamo farcela!”. Lui mi strizza l’occhio fiducioso e, dopo avermi dato un’amichevole pacca sulle spalle, si getta nella mischia. Che idiota! In un lampo scatta la lama del coltello e gli recido i tendini delle caviglie, facendolo così crollare a terra. Non fa neanche in tempo a capire cosa è successo che già i matti gli si lanciano addosso. Ne approfitto per uno slalom frenetico oltrepassando gli aggressori distratti dalla cattura della facile preda.
Che si fotta anche il professor Guidi! Ben gli sta! E’ stato proprio quello stronzo che, al termine del tirocinio, mi ha assegnato a questo reparto del cazzo in cui nessuno voleva venire. Guidi, infatti, non ritenendomi idoneo ad avere contatti umani con i pazienti, in realtà mi aveva inquadrato per quello che ero. E’ stato proprio lui ad affidarmi le chiavi della stanza blindata del reparto e saranno proprio queste chiavi che mi salveranno.
Finalmente arrivo alla porta metallica, inserisco rapidamente le chiavi, la apro, entro e me la chiudo alle spalle. Sono salvo! Quella che per me doveva essere una punizione, oggi è la salvezza. Qui dentro nessuno ci voleva stare, e lo credo bene! A chi farebbe piacere fare servizio in obitorio? La sala mortuaria ha sempre fatto paura a tutti, soprattutto in questo ospedale dove i pazienti muoiono come mosche. Ma oggi questo è l’ambiente più sicuro, non c’è anima viva che possa aggredirmi ma solo un cumulo di cadaveri stecchiti.
Eh sì, anche questa volta ce l’ho fatta, li ho fregati! Fottevi tutti, io me la sono cavata… o no?
Nicola Furia