di Igor Zanchelli
Rientrati in ufficio Squeglia e Marchese, fecero il punto della situazione.
“Allora Marche, che hai saputo curiosando in giro?”
“Ispettò ancora una volta ci ha visto bene, alla finestra c’era uno che non si faceva i fatti suoi!”
“Meno male, socio, altrimenti il nostro lavoro sarebbe ancora più difficile”.
“E anche lei ha ragione. Dunque, i colleghi delle volanti hanno detto che verso la una una e mezza, la sala operativa ha passato una nota alla V35, affinché si portasse nel luogo dove poi gli abbiamo trovati, poveracci, perché una chiamata al 113 ha segnalato una persona che correva e gridava aiuto.
All’1.45 sempre la sala operativa ha inviato sul posto altre 3 volanti, perché della V35 non si avevano più notizie e per di più un’altra chiamata, sempre al 113, segnalava colpi di arma da fuoco e urla in zona”.
“Ah … Cos’altro?”
“Beh ho parlato con l’uomo che ha fatto le chiamate al 113. Ha detto che siccome la sua fidanzata è brasiliana, quasi ogni sera verso la una di notte si sentono via skype; sa per il fuso orario.
Stanotte ha sentito gridare aiuto e si è affacciato, dalla finestra, per vedere cosa stesse succedendo. Riferisce di aver visto un uomo che correva, sembrava terrorizzato. Questo disperato si guardava alla spalle dando l’impressione di essere inseguito. Il testimone ha pensato che si trattava di qualche scontro tra bande giovanili che, ultimamente, stanno facendo macelli nelle grandi città. Così ha chiamato il 113.
Quando si è nuovamente affacciato, ha visto l’uomo inseguito, al centro del parcheggio dove abbiamo trovato la V35, inginocchiato; sembrava che pregasse ha detto. Secondo lui era un musulmano. Gli ho chiesto cosa gli facesse pensare che fosse islamico, lui mi ha risposto che tanti suoi colleghi di lavoro lo sono e quando pregano, lo fanno nello stesso modo che ha visto fare al nostro misterioso uomo.
Ha visto che c’era qualcosa che girava intorno al tizio seguendo una traiettoria circolare, ma non sa riferire cosa o chi fosse.
Poi arrivata la volante, ha sentito gli agenti gridare qualcosa e poi è iniziato il finimondo. Si è nascosto sotto la finestra per paura di qualche proiettile vagante, ed ha chiamato nuovamente il 113.
Quando si è riaffacciato, dopo che le armi da fuoco hanno cessato di sparare, ha visto un ombra che si muoveva a quattro zampe sparire nella notte. Lui pensa che si tratti di un grosso cane che, spaventato dal macello che c’è stato, è scappava via. Però la cosa strana, è che il tizio che pregava al centro del parcheggio, era sparito.
Ovviamente è tutto verbalizzato, e ho i recapiti qualora lei lo voglia risentire”.
“Azz Marche, hai saputo tutto questo facendo solo due chiacchiere informali? Tu sei proprio uno sbirro! Senti per gli accertamenti presso i comuni che ti avevo chiesto per il caso La porta?”
“Ancora non mi hanno risposto. Ma adesso vado a fare un po’ di telefonate e vedo di sollecitare. Ah ispetto mi hanno detto di dirvi che domani al massimo, vi mandano tutti i verbali per stanotte”.
“Questo caso proprio non lo vuole nessuno” pensò Squeglia, mentre seguiva con lo sguardo Marchese che si apprestava ad uscire dalla stanza. Se tutto quello che aveva detto il testimone era vero, non ingigantito o immaginato per l’effetto di qualche bicchiere di troppo o peggio qualche canna, dovevano cercare un immigrato che si trovava sulla scena del crimine e che era la vittima designata.
Il poliziotto sperava in cuor suo che lo scampato non fosse un clandestino, altrimenti solo un miracolo avrebbe permesso di trovarlo.
Con la prospettiva di beccarsi un bel decreto di espulsione, l’ultima cosa che il tizio del parcheggio avrebbe fatto, era farsi trovare dalla polizia.
Appoggiandosi allo schienale della sua poltrona e guardando il soffitto, Squeglia inizio a ripensare a quanto detto da Marchese. Rise quando pensava al tizio, che aveva chiamato il 113, al computer con la ragazza brasiliana. La scena che vedeva davanti a se era di due persone, distanti migliaia di kilometri, che davanti ad un freddo monitor si scambiavano promesse di amore eterno.
Accontentandosi di mostrarsi tra loro in un autoerotismo reciproco, ripreso dalle webcam, avendo l’impressione di vivere una intimità di cui presto, si sperava, avrebbero goduto.
Provò compassione per l’uomo perché sapeva, statistiche alla mano, che la fidanzata appena fosse riuscita ad avere il permesso di soggiorno, lo avrebbe lasciato per cercare fortuna altrove.
Pensò a quanto fosse triste tutto questo. Era vero, la tecnologia e la globalizzazione, internet, social network e tutto il resto avevano aperto enormi autostrade per opportunità, conoscenze, amicizie, ma di fatto avevano, ormai, quasi distrutto i rapporti umani. La bellezza di una chiacchierata tra amici, una serata al bar o al cinema tra persone in carne ed ossa, ormai stavano quasi scomparendo. Tutti i più giovani, di corsa la sera, si attaccavano al computer per vivere quella vita virtuale fatta di chat, giochi on line, che nella realtà non avrebbero il coraggio di vivere. E poi che squallore ricercare il piacere virtuale con qualcuno che si trovava chissà dove nel mondo. Ma dove era finito il piacere di corteggiare una ragazza in carne ed ossa, dove era finito il vantarsi di essere un playboy.
La desertificazione dei rapporti umani stava trasformando una stretta di mano, un abbraccio, un bacio, in un click sul pulsante mi piace. Che squallore!
Queste cose lui non le capiva. Certo davanti lo schermo di un computer, magari nascosto dietro un avatar con qualche nome strano, tutti erano capaci di essere dei super eroi o dei grandi pornodivi, ma poi, alla prova dei fatti, quasi tutti battevano il record di velocità sui cento metri.
Il telefono squillò destando Squeglia dai suoi pensieri.
“Pronto?”
“Dimmi Marchese … ”
“Ah bene, gli uffici dell’anagrafe ci hanno spedito tutto? … Arrivano domani? … Ottimo. Senti ma che gli hai detto per farli correre così? … Coooosa? Marchè tu si scem! … Come perché, ti presenti come il Questore, e mi chiedi il perché? … vabbuò … ma ti avviso, se il commendatore lo viene a sapere, siamo tutti e due nei guai, ed io ti inculo Marchè … ti faccio mandare all’ufficio vettovagliamento a imbustare merendine…”
L’ispettore riagganciò il telefono, e sorrise pensando al suo collaboratore. Ormai era certo che Marchese fosse un folle; un bravissimo poliziotto, ma pazzo da legare.
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Ingavar, quella mattina si alzò presto come al solito, pur non dovendo occuparsi del nipote. Il suo amatissimo tesoro, era andato a trovare i nonni paterni, ma lui non voleva perdere le sue abitudini. Se si teneva occupato, sentiva meno la mancanza di Antonio. Sfogliò i giornali mentre sorseggiava il caffè.
<TRAGICA NOTTATA. UCCISI DUE POLIZIOTTI>.
<EFFERATO DUPLICE OMICIDIO NELLA NOTTE. VITTIME DUE AGENTI>.
<LA VIOLENZA DILAGA IN CITTÀ. DUE MORTI>.
<POLIZIOTTI ASSASSINATI. POLIZIA IN LUTTO>.
Quando lesse l’ultimo titolo, la tazza gli cadde dalle mani infrangendosi sul tavolo, rovesciando il poco caffè rimasto e sporcandogli la vestaglia che aveva indosso. Rimase per un attimo come inebetito e, ripresosi, si immerse nella lettura dell’articolo.
<UNICO INDIZIO LA LUNA PIENA. DUE AGENTI DI POLIZIA TRUCIDATI NELLA NOTTE.
Duplice omicidio nella notte, le vittime due agenti di polizia in servizio alle volanti che hanno risposto ad una chiamata del 113. Ancora non si conosce la esatta dinamica dei fatti, ma pare che ci sia stato un conflitto a fuoco. L’omicida ha infierito sui corpi, straziandone le carni. Indiscrezioni riferiscono che i segni sui cadaveri dei due agenti, sono molto simili a quelli rinvenuti sul corpo di Michele La Porta, assassinato circa un mese fa, sul cui caso le indagini sono ancora in corso.
Alcuni esperti, ipotizzano che in città sia attivo un serial killer, perché le dinamiche degli omicidi e i segni sui tre cadaveri, fanno pensare ad una macabra ritualità. Per il momento l’unico collegamento tra le vittime, a parte il tremendo strazio dei corpi, è la luna piena. Infatti, sia quando è stato assassinato La Porta, sia stanotte per l’omicidio dei due poliziotti, la luna piena splendeva nel cielo notturno. G.Ver.>
La luna splendeva nel cielo … La luna splendeva nel cielo … La luna splendeva nel cielo … Ingvar ripeteva come un mantra quest’ultima frase dell’articolo. L’aveva già sentita ma non ricordava dove e in quale occasione, dentro di sé sentiva che era importante. Il senso di inquietudine che gli era prepotentemente nato dentro, gli faceva pensare che quella frase fosse importante.
“Ma si! Certo” disse ricordandosi “ luna pernox splendeo, il codice di Ian Corvinus di Ferrières”.
Un brivido di puro terrore gli percorse la schiena, “non può essere! Non è possibile!” disse avviandosi verso il telefono situato nello studio.
“Si buongiorno, sono il Professor Ingavr Korison, vorrei parlare con l’ispettore Squeglia se c’è per favore … Guardi è importante … si grazie attendo in linea … Buongiorno Ispettore sono Korison si ricorda … senta ho bisogno di parlarle al più presto … certo in mattinata … per mezzogiorno le va bene? … nel mio studio preferisco di no … in ufficio da lei mi sentirei a disagio. Facciamo così pranziamo insieme al bar vicino all’università così mi faccio perdonare per come l’ho trattata l’ultima volta … insisto Ispettore … va bene allora a mezzogiorno ci vediamo lì. Senta porti pure il suo collaboratore, quello dei lupi mannari, vorrei conoscerlo … d’accordo a più tardi … buona giornata a lei ispettore”.
Il professore si vestì, prese dalla sua biblioteca il libro di mitologia che narrava la storia del Lupo Fenrir e uscì dirigendosi verso la biblioteca dell’ateneo per rileggere, prima dell’incontro con Squeglia l’antico codice di Corvinus.
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Hassan, aprì gli occhi e si ritrovò in una stanza dalle pareti di un azzurrino chiaro, luminosa, con una finestra sulla sua destra. La finestra aveva delle solide sbarre. Era in un letto che a lui, abituato a dormire dove capitava, sembrava il più comodo del mondo. Un uomo entrò nella stanza. Aveva una casacca e pantaloni verdini, con degli zoccoli in plastica ai piedi. Nel taschino della casacca tante penne, e appeso al collo uno fonendoscopio.
La figura si avvicinò al letto; Hassan disse:
“Sono morto? Questo è il paradiso?”
“Se credi che il reparto di psichiatria è il paradiso, amico mio, tu sei veramente grave” disse l’uomo.
“Reparto di psichiatria? Cosa ci faccio qui?”
“Sono il Dott. Zaza, sei stato portato qui stanotte dai carabinieri. Eri fuori di te, correvi come un forsennato e gli hai aggrediti, deliravi. Ti hanno fatto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio. Un ricovero coatto effettuato nei confronti di persone che hanno chiari segni di squilibrio psichico).
Come ti senti ?”, chiese il medico mentre leggeva la cartellina dell’anamnesi di Hassan.
“Carabinieri? Psichiatria? … Sto bene Dottore. Dobbiamo avvisare la polizia perché in giro c’è un mostro che si mangia le persone. Voleva uccidermi stanotte ma Allah l’onnipotente mi ha salvato.”
“Certo capisco. E questo mostro la inseguiva? Per questo stava scappando?”
“Senta crede che io sia pazzo? Il mostro ha detto di chiamarsi Fenrir, l’ho visto che si trasformava da uomo a lupo”.
“Certo che le credo, e ha visto altre volte questo … lupo? La ha inseguita altre volte?”
Il tono del medico era piatto, senza nessuna variazione, rassicurante, monotono. Hassan capendo che lo psichiatra non gli credeva, iniziò ad agitarsi e alzò il tono della voce.
“Io non sono pazzo! Dobbiamo avvisare la polizia o quel mostro continuerà ad uccidere”.
Il medico sobbalzò, all’improvviso agitarsi di Hassan chiamò due infermieri affinché entrassero nella stanza.
“Le sto dicendo che le credo ora si calmi. Non si agiti sveglia tutto il reparto”, disse mentre i due infermieri entrarono e si posizionarono uno a destra e l’altro a sinistra del paziente, pronti a trattenerlo qualora avesse tentato di alzarsi dal letto.
“Le sto dicendo che c’è un mostro in giro che vuole mangiarsi gli uomini e lei mi dice di stare calmo? Chiami la polizia” disse il paziente urlando e cercando di alzarsi dal letto.
Gli infermieri intervennero subito e bloccarono Hassan sul letto legandogli con delle cinghie, che lui non aveva notato, i polsi e le caviglie.
“Che fate, siete impazziti? Io non sono matto, devo avvisare la polizia del pericolo, slegatemi devo andare” protestò Hassan gridando.
“Somministrategli il Neurontin (potente antipsicotico) due volte al giorno, per una settimana. Il paziente soffre di schizofrenia persecutoria grave e, temo abbia, anche un disturbo bipolare. Facciamo la terapia e poi vediamo il decorso clinico”, ordinò il medico ai due infermieri annotando la prescrizione farmacologica sulla cartella clinica del paziente.
Hassan di dimenava sul letto tentando di liberarsi, continuando a gridare di avvisare la polizia; l’effetto del farmaco iniziò a fare effetto e le forze si affievolivano sempre di più.
“Fenrir … Fenrir … Fenrir … Fen…” gli occhi di Hassan si chiusero e su di lui cadde il buio. Aveva smesso di dimenarsi, si era addormentato.
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Squeglia e Marchese arrivarono all’appuntamento con Ingvar puntuali. Korison li attendeva nel Bar, aveva scelto un tavolo collocato in fondo alla sala che offriva una parvenza di privacy. Il bar era un luogo affollato vicino all’università, poiché offriva la possibilità di mangiare qualcosina velocemente a pranzo. Era sempre pieno di studenti e professori che facevano una pausa tra una lezione e l’altra. Nell’aspetto il locale non era dei migliori, ma sembrava abbastanza pulito e curato.
I proprietari ed il personale erano gentili e accomodanti, non volendo perdere i clienti, che numerosi lo affollavano. I due poliziotti si diressero verso il professore:
“Buongiorno Professor Korison, lui è il Sovrintendente Marchese, il collega a cui piacciono i film horror” disse Squeglia presentando il suo collaboratore.
“Buongiorno a lei Ispettore e piacere di conoscerla sovrintendente” disse Ingvar porgendo la mano ai due.
“Prego accomodatevi”.
I due si sedettero “Grazie professore. Dunque ha detto che voleva vedermi. Di cosa voleva parlarmi?”
“Ispettore lei è sempre così diretto e frettoloso? Un proverbio dialettale della vostra terra, credo pugliese, dice che quando la pancia e vuota non si ride e non si canta, quando la pancia è piena e satolla, allora si ride e allora si suona”.
“Mi scusi, ma abbiamo molto da fare in ufficio; è per questo che abbiamo premura”.
“D’accordo, capisco”, disse Ingvar mostrando ai due il titolo del giornale che lo aveva sconvolto quella mattina. L’ispettore lo lesse impassibile. Poi restituì il quotidiano al professore e fulminò con gli occhi Marchese, il quale, intuendo i pensieri omicidi e i turpiloqui che il suo superiore gli stava mandando, abbassò gli occhi e distolse lo sguardo.
Korison notando i “fulmini” lanciati dall’ispettore al sovrintendente, capì chi fosse la fonte del giornalista.
“Dunque ispettore ho chiesto di vederla, perché volevo rispondere alle domande che lei mi ha posto nel nostro precedente incontro. Per puro caso ho trovato un antico codice, del tardo medio evo, che narra e descrive gli avvistamenti e gli attacchi di un essere mitologico che potrebbe essere associato ad un licantropo. O meglio come il progenitore dei tutti i licantropi, ovvero Fenrir, figlio del dio Loki. Vi risparmio tutta la mitologia norrena in merito. Sulla valenza storica del manoscritto non potrei giurarci, ma nemmeno escluderla perché alcune parti, sono talmente ricche di particolari che possono essere facilmente riscontrabili, mentre altre, sono troppo romanzate per capire dove c’è cronaca e dove romanzo”.
“Quindi?” chiese Squeglia.
“Senta, capisco che l’ultima volta sono stato scortese con lei e mi sto scusando, ma non vedo il motivo per cui lei deve essere maleducato e rancoroso nei miei confronti. Infondo la ho invitata a pranzo per cercare di farmi perdonare”, disse Ingvar risentito del tono freddo e inquisitorio del poliziotto.
“Mi scusi professore non volevo essere sgarbato, ma facendo questo mestiere a volte si usano i toni da sbirro con persone e in situazioni che non lo richiedono”.
“Ah … Capisco! Allora mi scusi lei ispettore. Dunque come stavo dicendo, in questo manoscritto ho notato due elementi in comune a tutti gli episodi narrati, sia in quelli di cronaca che in quelli diciamo romanzati. Il primo è che tutti hanno descritto la bestia come una mostro che aveva sul corpo un tatuaggio, presumo, con il nome Fenrir scritto in runico, il secondo è che tutti gli attacchi e avvistamenti avvenivano quando di notte c’era la luna piena”.
All’udire ciò Marchese usci dallo stato di scolaro rimproverato in cui si trovava, e stampò sul suo viso un sorriso a trentadue denti, assicurandosi che sia il suo superiore che il professore lo vedessero.
Squeglia vedendo il suo collaboratore comportarsi così, si portò ambedue le mani a coprirsi la faccia, scuotendola alternativamente a destra e sinistra dicendo tra se e se “chist’ iè propri sciem”.
Ingvar invece, guardava il sovrintendente sgranando gli occhi, come se stesse guardando un fenomeno da baraccone. Rivolgendosi all’ispettore continuò:
“Quando stamattina ho letto il giornale che le ho mostrato, non le nascondo che ho quasi avuto un colpo, anche perché non sapevo che il primo delitto, quello di cui lei mi ha fatto leggere il referto autoptico, si fosse verificato in una notte di luna piena”.
“Mi sta dicendo che ha trovato delle prove dell’esistenza dei licantropi?” chiese Squeglia.
“Da studioso ed accademico, non penso proprio di poter affermare una cosa del genere. Primo perché il codice andrebbe studiato a fondo e verificato nei fatti e nelle date. Secondo perché queste possono essere solo coincidenze, magari qualche pazzo uccide le persone credendo, nella sua follia, di essere un licantropo. Ma da uomo originario del libero e profondo nord, discendente dei vichinghi penso che forse lei, o meglio il qui presente sovrintendente, abbia ragione e che potrebbe esserci un licantropo a piede libero in zona”.
“Cosa c’entrano i vichinghi?” chiese Marchese, rompendo gli indugi.
“Vede i vichinghi erano il popolo amato da Odino e dai suoi figli; i vichinghi avevano un feeling particolare con gli dei nordici. Si narra che uno di noi può percepire la presenza di un dio nordico, per via del legame che lo lega ad Odino il padre di tutti gli dei. Ora dato che Fenrir e figlio di Loki, in teoria un vichingo potrebbe sentire la sua presenza. Io stamattina ho sentito qualcosa quando ho letto quell’articolo, ed anche quando l’ispettore mi ha parlato dell’altro caso ho avuto delle strane sensazioni. Razionalmente penso che mi sia fatto suggestionare, ma la mia parte vichinga dice di no”.
Marchese annuiva, significando che stava comprendendo appieno quello che Ingvar diceva, mentre Squeglia, per via della sua razionalità rifiutava di credere a questi speciali legami, a queste percezioni extrasensoriali a questo antico mondo fatto di dei e gloriosi popoli. Per l’ispettore l’uomo si è semplicemente evoluto da preistorici primati e solo la sua irrazionale paura della non comprensione e dell’annichilimento che la morte genera, ha portato gli uomini primitivi a elaborare il concetto di religione con tutte le schiere di Dei, paradisi e resurrezioni.
“Ad ogni modo visto che in tribunale ci vogliono prove, due soli casi di omicidi con la luna piena, delle sensazioni di un professore vichingo esperto in mitologia nordica e avanti con l’età, possono essere solo coincidenze”. Concluse Ingvar.
“E se i casi non fossero solo due ma sei” chiese Marchese tutto eccitato “le chiamerebbe ancora coincidenze?”
“Come sei? I giornali hanno riportato solo due casi!” chiese Korison sobbalzando dalla sedia.
“Gli altri quattro si sono verificati in altre zone d’Italia nell’arco di due anni” rispose il sovrintendente.
“Basta cosi Marche!”intervenne Squeglia con un tono che non ammetteva repliche “ora andiamo. Professore la aspetto domani pomeriggio, alle 14.00 in questura nel mio ufficio. Sappia che non le sto facendo un invito di cortesia, ma una intimazione ufficiale di polizia a presentarsi”.
I due poliziotti si alzarono, salutarono il professore ed uscirono dal locale.
In macchina durante il viaggio di rientro, Squeglia sbottò:
“Mi spieghi perché cazzo hai passato le notizie al giornalista?”
“Ispettore non lo sa che per avere informazioni a volte non bastano le colazioni? La gente parla più facilmente con i giornalisti che con i poliziotti. Per farmi dire tutto quello che ho saputo su stanotte, ho dovuto dare qualcosa in cambio. E poi loro sono più bravi, a volte, a fare ricerche; gli ho suggerito di verificare se nel mondo si erano verificati casi simili al nostro. Loro possono pagarle le informazioni”.
Squeglia ammise che il ragionamento di Marchese non faceva una piega. Doveva dare atto al sovrintendente che aveva avuto una geniale intuizione.
“Come devo fare io con te Marchese, tu mi vuoi mandare in manicomio. Ma che gli diciamo al commendatore? Che abbiamo il sospetto che un lupo mannaro sia l’artefice dei delitti?”
“No ispetto, e perché. Non lo diciamo noi che gli omicidi avvengono con la luna piena. Lo dice un giornalista. E i giornali sono famosi per inventarsi strane storie pur di vendere”, rispose marchese accennando un sorriso mentre guardava la strada dritta davanti a se.
“Marchè tu si na latrin”, rispose l’ispettore.
Igor Zanchelli
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