di Igor Zanchelli
“Ispettore sono arrivate le carte che avevamo richiesto ai vari comuni”.
“E che dicono Merche?”
“… e che dicono… dicono che da noi si sono trasferiti solo due persone. Un certo Antonino Cataldi di 55 anni vedovo, ed un certo Stevan Lossa di anni 30 single”.
“Questi due erano residenti nei luoghi degli omicidi?”
“Risulta che il Cataldi era residente in uno solo dei quattro luoghi. Si era trasferito li trent’anni fa proveniente del meridione. Poi probabilmente ha deciso di avvicinarsi ai figli che risultano essere residenti qui da noi.
Lossa invece è risultato residente o comunque soggiornante in due dei quattro paesi, proveniente da non si sa dove…”
“Scusa che significa proveniente non si sa da dove? Marchè”.
“Ispetto qui c’è scritto esodato, cittadinanza italiana, stato\nazione Jenisch. Ho cercato su internet ma sto paese non esiste”.
“Jenisch … mai sentito! Ma sto Lossa, fammi capire, è bianco, giallo, nero, marrone, di che razza è?”
“Bianco ispetto… ariano direi. Biondo con occhi azzurri. Ho il cartellino della carta d’identità che mi ha mandato un comune dove era residente”.
“Vabbuò… oh senti i commissariati di zona e fammi avere tutte le notizie che hanno su questi due”.
“Già fatto ispettore … Cataldi non ha nulla. Incensurato, nessuna segnalazione nelle banche dati, nemmeno una multa.
Lossa invece, è pieno di precedenti, proprio un bel soggetto. Più volte denunciato per oltraggio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, rifiuto di dare le proprie generalità giuda in stato d’ebbrezza, rissa, furto aggravato, violazione di domicilio ecc… ha la patente revocata e non può frequentare pregiudicati e deve tenere una condotta irreprensibile. Insomma bravo ragazzo”.
“È bravo Marchese. Vuoi prendere il mio posto per caso?”
“Noo ispetto… troppi pensieri e poi la paga è bassa. Non ne vale la pena”.
“Pure tu hai ragione!. Senti tra un po’ deve venire il professore Korison, tu nel frattempo convoca Cataldi e Lossa e falli venire oggi. Vediamo cosa hanno da dire”.
“Va bene Ispetto come volete”.
Squeglia fissava l’orologio sulla parete che segnava le 11,00. Tra un’ora sarebbe arrivato il professore e lui non aveva la minima idea di cosa chiedergli e soprattutto non si spiegava perché lo aveva convocato in modo così perentorio e sgarbato. Probabilmente il suo subconscio voleva solo prendersi la rivincita sul loro incontro all’università dove il poliziotto aveva fatto davvero una magra figura.
Cosa doveva chiedergli? Non aveva idea. Il suo era stato esclusivamente un infantile capriccio.
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Hassan giaceva sul letto nella sua stanza del reparto psichiatrico imbottito di farmaci in uno stato di catatonia assoluta. Quando l’effetto del Nurendin finiva, di colpo irrompevano come un fiume in piena che travolge gli argini, i ricordi di quella notte. Lo strano uomo che parlava di cose a lui incomprensibili, la trasformazione, gli occhi gialli che sprizzavano fame ed odio, l’uomo che diventa lupo. Il lupo che parla e che vuole lui; ma soprattutto quella parola, quel bisillabe che risuona incessantemente nella sua testa, Fenrir, Fenrir, Fenrir.
A seguito di ciò Hassan si agitava, gridava, scalciava, urlava di chiamare la polizia, affermava che bisognava fermare Fenrir, chiedeva protezione sostenendo che il lupo voleva mangiarlo e che verrà a prenderlo anche li in ospedale.
Quando il suo agitarsi superava una labilissima soglia di attenzione entravano in gioco gli infermieri, che istruiti dal medico di turno, somministravano altri farmaci, altri calmanti ad Hassan. Lui cosi poteva ripiombare nel suo nirvana artificiale, dove nessun pensiero o ricordo lo turbava. Una magnifica pace pervadeva la sua coscienza e la sua ragione.
L’infermiere antra nella stanza di Hassan e mentre gli sta slegando il braccio dalle cinghie di ritenzione, il paziente gli dice:
“Finalmente … l’effetto è quasi finito. Il demone è presente e si avvicina sempre più. Quale braccio vuoi?”
“No mi spiace. Adesso niente medicine. Devi parlare col medico e devi essere lucido. Il dottore deve valutare se stai migliorando o no. Deve decidere se puoi andare a casa”.
“Casa … Io non ho una casa. Dormivo per strada. Ecco perché Fenrir mi ha trovato”.
“Ok, ok … ad ogni modo niente medicine! Datti una sistemata che il medico ci aspetta”.
“Anche Fenrir mi aspetta. Mi cerca e prima o poi mi troverà”.
“Certo come dici tu. Però ora sbrigati non ho tutto il giorno e ho altri pazienti”.
Hassan non osava contraddire e iniziò a sistemarsi alla meglio. Non aveva voglia di discutere con un infermiere scontroso e ormai stanco del suo lavoro.
Il medico sedeva nel suo studio, la parete era dipinta con colori pastello chiaro, piante e molta luce rendevano l’ambiente molto tranquillo e confortevole. Ideale per consentire ai pazienti di sentirsi a proprio agio ed interagire col dottore nel colloquio che decideva se si era guariti oppure no.
Hassan e l’infermiere avevano bussato ed erano in attesa sulla porta aspettando il permesso per entrare nella stanza dello psichiatra.
“Avanti, accomodatevi pure. Un minuto e sono da voi”, disse la voce del medico che giungeva da un’altra stanza attigua allo studio.
Il medico osservava il paziente e il suo accompagnatore da un piccolo monitor situato nella stanza accanto, come da protocollo, lascia attendere una decina di minuti Hassan, giusto per essere sicuri che fosse tranquillo. Nell’attesa tra le riviste a disposizione aveva notato che il paziente non aveva scelto nessun giornale. Di tanto in tanto alzava gli occhi verso l’infermiere e non aveva mai guardato l’orologio. Buon segno, si disse lo psichiatra. Riteneva che il livello di ansia fosse adeguato e che fosse giunto il momento di poter entrare.
“Buongiorno Hassan, scusi per l’attesa, vuole un bicchier d’acqua? Questo è il suo primo colloquio a cui si sottopone da quando è stato ricoverato. Dico bene? Voglio sperare che sia una mera formalità”.
Hassan guardava il medico e poi l’infermiere e rispose:
“Beh, più che altro si tratta di un obbligo. Se non fossi venuto non mi avreste dato le medicine, mi chieda ciò che vuole, così facciamo in fretta”.
“Si sbaglia! Se non fosse venuto non sarebbe successo nulla. Ad ogni modo come si sente?”
“Sto bene … ma voglio le mie medicine!”
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Ingvar si presentò puntuale in Questura e dall’agente in servizio all’ingresso si fece indicare l’ufficio di Squeglia. Lungo il percorso incontro Marchese che, riconosciutolo, lo accompagnò e lo introdusse dal suo superiore.
“Buongiorno professore, grazie per essere venuto. Si accomodi pure”, disse Squeglia, accomodandosi a sua volta dietro la scrivania quasi a voler far trasparire il fatto che ora era lui che giocava in casa, e pertanto aveva una posizione di forza rispetto al suo ospite.
“Buongiorno a lei ispettore. Mi sembrava doveroso presentarmi visto il modo perentorio, e onestamente incomprensibile, con il quale mi ha ordinato di venire qui oggi” rispose Ingvar sottolineando con enfasi la parola ordinato, guardando Squeglia dritto in faccia.
Il poliziotto accusò il colpo e quasi si vergognò per il comportamento che aveva avuto il giorno prima con il professore e cambiò atteggiamento e tono.
“Mi scuso professore se sono stato sgarbato, ma come ho avuto modo di dirle altre volte il mio lavoro mi porta ad usare toni che non dovrebbero essere usati con talune persone”.
“Si figuri ispettore la comprendo. Ma perché mi ha fatto venire?”
Il poliziotto non sapeva cosa rispondere a quella semplice domanda fatta dall’accademico e guardava oltre il professore un immaginario punto che si trovava sulla parete alle spalle di Ingvar.
“Ispettore …” riprese Korison alzando leggermente il tono della propria voce, facendo in modo che seppure più alto, non desse l’impressione di voler mancare di rispetto al suo interlocutore. Il poliziotto come ridestato da un improvviso abbiocco pomeridiano disse la prima cosa che gli venne in mente:
“Lei prof. Korison sa dove si trova lo stato di Jenisch?”
“Scusi?”
“Le chiedevo se lei sa dove si trova la nazione o la città di Jenisch …”
Ingvar scoppiò a ridere in maniera molto composta e sfregando le mani sulle cosce disse:
“Ispettore, Jenisch non è una nazione ma una etnia”.
“Mi perdoni credo di non aver capito”.
“Gli Jenish sono la terza maggiore popolazione nomade europea dopo Rom e Sinti”.
“Cioè sono zingari?”
“Beh in definitiva si! Sono conosciuti anche come zingari bianchi, per via della loro origine germanica. Amano autodefinirsi come diretti discendenti dei celti”.
Squeglia aveva fatto per la seconda volta la figura dell’ignorante con il professore. Bastava fare una piccola ricerca e avrebbe scoperto chi fossero gli Jenisch.
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Nella stanza dello psichiatra Hassan ascoltava il dottore e rispondeva alle sue domande. L’atmosfera era tranquilla, il medico era maledettamente bravo a creare quella sintonia con i pazienti tale da farli sentire completamente a loro agio. Congedando l’infermiere chiese ad Hassan:
“Si rilassi pure. Mi dica, prima come si sentiva? Lei è consapevole che quando i carabinieri l’hanno trovata aveva dei forti scompensi psicologici che hanno consigliato al medico di ricoverarla qui da noi?”
“Prima stavo benissimo! Certo non me la passavo alla grande ma con la testa ero apposto. Poi se lei avesse visto e incontrato Fenrir, anche a lei sarebbero venute delle turbe psicologiche”.
“Quindi mi sta dicendo che questo Fenrir ha condizionato la sua situazione psichiatrica?”
“Condizionato … io direi più che altro sconvolta”.
“Mi parli della sua esperienza. Perché l’ha sconvolta?”.
“Come perché … perché ho visto un uomo trasmutarsi in un qualcosa di mostruoso che voleva mangiarmi”.
“Un mostro che voleva divorarla, interessante. Senta Hassan cosa ricorda dell’incontro?”
“Ricordo questo uomo che si trasforma, che mi dice di essere Fenrir, che si ciberà delle mie carni, che sente la mia paura. Lo sento ridere, vedo le sue bave, sento il suo fetore …”
“Va bene Hassan si calmi, si calmi. Non è necessario che continui”.
“Non capisci! Fenrir mi da la caccia e prima o poi mi troverà e voi non potete fare niente per fermarlo”, il paziente incominciava ad agitarsi e i tono della voce si alzava man mano che diventava più nervoso ed alterato. “Mi troverà e mi ucciderà … DOVETE CHIAMARE LA POLIZIA, BISOGNA AVVISARLI DEL PERICOLO BISOGNA FARE QUALCOSA” ormai Hassan gridava come un ossesso. Due infermieri entrarono di corsa nello studio del medico e si affrettarono ad immobilizzare il paziente.
“È ora di interrompere questo nostro colloquio. Ho sentito abbastanza”, disse lo psichiatra e continuò: “Sig. Hassan, non è ancora guarito. Resterà con noi ancora un pochino”.
“AVVISATE LA POLIZIA, CHIAMATE LA POLIZIA. AIUTO, AIUTO … MI TROVERA’ E MI UCCIDERA’, NON RIUSCIRETE A SALVARMI” urlava Hassan rivolto al medico mentre era immobilizzato dai due operatori sanitari.
“Continuiamo con la terapia per altri cinque giorni. Aumentate le dosi di due mg. Lo rivaluterò tra una settimana”, disse il medico ai due infermieri e si diresse verso la stanza da dove era uscito all’inizio dell’incontro con Hassan.
Il paziente venne ricondotto nella sua stanza dove gli fu somministrata la terapia prescritta. La pace ritornò nell’anima di Hassan e Fenrir scomparve grazie all’effetto del farmaco.
Igor Zanchelli
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